Vicino a casa mia c’è una Casa di Riposo. Sono in un caffè, sto scrivendo. Da me ci sono lavori in corso, operai che vanno e vengono, impossibile qualsiasi tipo di concentrazione. Nel caffè sto bene, hanno i cornetti integrali al miele. Sono gentili. Mentre sono lì che digito veloce, attenta alle mie cose e per nulla distratta dalla gente che entra e esce (sto scrivendo un romanzo, ogni faccia mi è utile, racconto la vita degli umani), entra una coppia di vecchi. Potrebbero avere 90 anni, ma anche di più. Li ho già visti, abitano lì, nella casa di riposo. Lui la sorregge, lei si appoggia. Lui è meglio in arnese, ma lei si appoggia volentieri, prima di affrontare una discesa di due gradini gli sorride. Lui le picchietta due affettuose simil carezze sul dorso della mano. Se ne vanno, uniti dalla debolezza di lei, dalla forza di lui. Ma potrebbe essere il contrario.
La dipendenza reciproca, quando non è obbligata, ha molto a che vedere con l’amore. Genera tenerezza. Che sia l’ultima e più sublime forma dell’eros? La sortita li ha appagati, i miei due molto vecchi: uscire, andare al bar, come si vivesse ancora nel mondo degli altri. Mi riprometto di visitare la casa di riposo, evidentemente non è un lager, da cui non ti fanno uscire facilmente. E poi è in un bel quartiere, pittoresco e centrale, nel cuore della vecchia Roma, a Trastevere.
Sto pensando al mio futuro? Dall’appartamento su tre livelli, situato al terzo piano senza ascensore, dalle scale che faccio di corsa per mantenere glutei da premio, potrei passare, senza soluzione di continuità, giù all’angolo, nella Casa della decrepitezza. È questione di decenni, ma i decenni passano in fretta. I mesi rotolano via. Gli ultimi dieci sono durati un niente, i giorni più si accumulano più volano. Quando affronti la prima elementare un anno è un sesto della tua vita, a sessant’anni è un sessantesimo. Un battito d’ali.
Mi fa paura la casa di riposo? Sì, però mi piace il titolo. Casa di riposo. È riposo, la parola dolce. Però bisogna re-inventarla, quella casa finale, a partire dalle fondamenta.
Non può essere un luogo a cui ti consegni, come un internato, perdendo le chiavi della tua vita, la tua identità, la tua libertà di movimento.
Deve essere un luogo di agio e di benessere. Una casa nel senso più alto del termine. Un gruppo di alloggi in cui si vive in comunità. Molto vecchi con molti vecchi, ma aperta allo scambio con le altre generazioni. Immagino che ci siano persone che aiutano a pulire, un autista perché non hai più voglia di guidare, una cuoca attenta alle diete. Una guardia medica. Immagino che, a turno, chi può, chi è ancora in grado, si occupi di chi è allettato o depresso o spaventato. Immagino una biblioteca interna, una palestra, magari una piscina. E una scuola, dove si tengano lezioni di musica o di cucina, dove si possa imparare a potare un cespuglio di rose, a badare al giardino, a scrivere una poesia, a leggere i tarocchi, a cantare nel coro. Perché è quando si smette di imparare che si muore davvero, che si diventa malamente vecchi.
Non è un sogno irrealizzabile, basta stornare, dall’insieme delle tasse che paghiamo da una vita, un fondo-senilità, una forma di previdenza in vista di un futuro che promette di essere sempre più lungo.
La vecchiaia è l’unica esperienza che tutti, prima o poi, siamo destinati a fare. Non vale forse la pena di prepararsi per tempo? Una cultura della dignità che non metta limiti al diritto degli individui di essere considerati persone. Soldi per organizzare tutto il benessere di cui ha bisogno chi è arrivato alla fine del viaggio, è tutto quello che ci serve. Si può fare.
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