Secondo il Rapporto Caritas in Italia l’ascensore sociale è fermo e la povertà intergenerazionale diventa una gabbia dalla quale è difficile uscire.
Difficile, quasi impossibile, uscire dalla povertà. Anzi, di più: essere poveri è un titolo ereditario, che si trasmette di padre in figlio. Lo mettono nero su bianco i ricercatori di Caritas italiana nel Rapporto sulla povertà 2022. Nel documento, intitolato L’anello debole, i ricercatori scrivono: “La povertà familiare è un pavimento appiccicoso che rende difficile ogni mobilità ascendente”.
In poche parole, le chance per migliorare la propria posizione sociale ed economica sono riservate a chi proviene da famiglie di classe media e superiore. Chi parte svantaggiato, invece, ha scarse possibilità di raggiungere livelli superiori.
Il “pavimento” familiare e la povertà educativa
Per i ricercatori l’indigenza è legata alla famiglia in cui si nasce e se questa si trova in una condizione di fragilità il rischio di rimanere invischiati in situazioni di povertà economica è molto alto. Ma il punto chiave è l’istruzione: l’Italia ha una povertà educativa alta, il tasso di abbandono scolastico si attesta al 13% in media con punte in zone come Napoli, la Sicilia o la Sardegna dove tocca vette del 20-30%. La media Ue è inferiore al 10.
Dal Report risulta che le persone indigenti nate tra il 1966 e il 1986 (che hanno dunque tra i 36 e i 56 anni), provengono per la maggior parte da famiglie con bassi titoli di studio. In alcuni casi analfabete o senza qualifiche: oltre il 60% dei genitori possiede al massimo una licenza elementare. E proprio i figli delle persone meno istruite interrompono gli studi prematuramente, fermandosi alla terza media o alla licenza elementare. Al contrario, più della metà dei figli di genitori con una laurea raggiungono almeno il diploma di scuola superiore.
Se la povertà è lavorativa
Situazione analoga nel campo lavorativo. Anche qui più del 70% dei padri di chi si rivolge alla Caritas è occupato in lavori scarsamente specializzati, in linea con bassi profili scolastici. Le madri sono in maggioranza casalinghe o occupate con basse qualifiche.
Dal confronto intergenerazionale emerge che circa 1 figlio su 5 ha mantenuto la posizione lavorativa del padre. Se non addirittura (nel 42,8% dei casi) ha assunto una deriva discendente. Inoltre, a quel 36,8% che è riuscito ad emergere nella professionalità, raramente è garantita un adeguato inquadramento contrattuale ed economico.
Esiste anche una povertà psicologica
Le storie raccolte nel Dossier fanno riferimento anche ad una povertà psicologica, che si manifesta con bassa autostima, frustrazione, mancanza di speranza e progettualità, sfiducia nelle Istituzioni. Sentimenti frutto di un ambiente di crescita familiare che affonda le radici nella povertà culturale e nella mancanza di conoscenza basilari, come l’accesso ai servizi e la consapevolezza dei propri diritti. Tutti atteggiamenti generati dalla povertà che però, pur non essendo la causa della condizione di disagio bensì il riflesso, contribuiscono a frenare la mobilità sociale.
Un problema universale
Complessivamente, rileva il Rapporto, nel panorama della povertà in Italia i casi di povertà intergenerazionale pesano per il 59%. Nelle Isole e nel Centro il dato risulta ancora più marcato, pari rispettivamente al 65,9% e al 64,4%. Mentre Nord-Est e Sud risultano le aree con la più alta incidenza di povertà di prima generazione, i nuovi poveri, su cui agire subito.
L’analisi conferma il recente studio OCSE intitolato A broken social elevator? How to promote social mobility: chi proviene da una famiglia povera ha bisogno di più tempo per migliorare la propria situazione. Lo studio individua in 4,5 generazioni il tempo necessario per uscire dalla povertà nei Paesi OCSE, in Italia ne sono necessarie 5. Un dato che risulta superiore ai Paesi Scandinavi ma anche a quelli del Mediterraneo, come Spagna e Grecia, più vicini a noi anche rispetto agli standard di povertà.
Le testimonianze
Dalle parole degli assistiti nel Rapporto emerge la percezione di una povertà multigenerazionale che investe la sfera sociale e quella soggettiva. La scelta di una cultura assistenzialista da cui non è facile staccarsi limita di fatto l’autonomia e la responsabilità individuale. Connessa alla mancanza di opportunità è la difficoltà ad uscire da quartieri-ghetto che condizionano la vita dei residenti. Le vittime di povertà ereditano non solo lo status socio-economico, ma anche stili di vita e comportamenti difficilmente modificali. La sensazione è una gabbia, da dove è impossibile uscire senza un aiuto. Una voce tra tante: “Se io fossi un’assistente sociale, aiuterei le persone che ho con me, cercherei di tutto… Se sei un assistente sociale, devi ascoltare di più le persone.” Ascoltare, accompagnare e dare fiducia sono le tre direttive fondamentali per spezzare la povertà intergenerazionale.
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