L’esperienza del volontariato rappresenta non solo un impegno, ma un vero e proprio stile di vita all’insegna dello slogan “I care” (“mi interessa”). E i senior italiani, secondo l’Istat, sono quelli più coinvolti nelle azioni di solidarietà verso il prossimo
C’è un vecchio detto popolare che recita: “A tavola non si invecchia mai”. Volendolo parafrasare verrebbe da dire: “Facendo il volontario non si invecchia mai”. Questo il senso dell’esperienza di vita di Guido Barbera, membro del Direttorio Internazionale delle Associazioni Follereau e presidente del CIPSI (Coordinamento di Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionali), di cui è stato cofondatore nel 1982. Esperto di cooperazione internazionale, docente in molti corsi formativi per operatori di solidarietà e cooperazione internazionale, è anche direttore responsabile della rivista Solidarietà Internazionale.
Barbera ha ormai superato la soglia dei 60 anni, ma quando parla del suo impegno cogli subito un’energia e una forza che normalmente riscontri in persone con molti lustri in meno. Che quella del volontariato sia un’esperienza “senza età” lo dimostrano anche i numeri a disposizione (fonte Istat), se è vero che proprio le persone nella fascia di età tra i 55 e i 64 anni, risultano – nel nostro Paese – quelle col tasso più alto di coinvolgimento nel volontariato, il 15,9%. Una percentuale che diminuisce man mano che scende l’età, anche in ragione del minor tempo libero, con il valore più basso – circa il 10% – nella fascia di età 14-24 anni.
Allora – chiediamo a Barbera – il volontariato non sembra essere solo “questione per giovani”…
«Assolutamente no. Il volontariato, e ne sono convinto, non ha età perché non è un semplice fare qualche cosa o dare impegno, tempo o risorse rivolte a chi ha più bisogno. Direi piuttosto che è uno stile di vita che deve contrassegnarci. Proprio la storica marcia Perugia-Assisi, che si è svolta anche quest’anno malgrado il Covid, ha scelto come slogan quello dell’“I care” (la risposta al “Me ne frego” con il “Mi interessa, mi riguarda, mi coinvolge”) di don Lorenzo Milani. L’ho trovato molto bello, soprattutto in tempi di forzati distanziamenti. Il volontariato – mi piace pensare – è proprio la personalizzazione e la concretizzazione dell’“I care” perché, oltre all’impegno e al servizio di cura, ti mette in gioco, ti rende responsabile del tuo ruolo di cittadino e di abitante di questa terra e degli ambienti in cui viviamo».
Un impegno quello volontaristico, insomma, che non è solo azione caritativa ma “politica” nel senso vero del termine, quello dell’occuparsi della comunità in cui si vive…
Esattamente. Faccio questa scelta non semplicemente perché mi vengono dati dei compiuti o perché desidero fare qualcosa di buono per gli altri o, peggio ancora, perché mi sostituisco a ciò che le Istituzioni non fanno, ma mi riapproprio del mio ruolo di cittadino nel costruire un’umanità con lo stile delle relazioni di fraternità che poi sono alla base del vivere insieme. Questo, nella mentalità della pura delega che si è imposta negli anni, è un concetto bellissimo espresso anche nel primo articolo della Carta della Dichiarazione dei Diritti Umani, quando afferma che tutti nascono liberi e uguali. La filosofia che deve stare dietro ad ogni volontario è allora quella, non solo di richiedere e rivendicare questi diritti, ma quella dell’impegno, direi della compromissione, per mantenerli e garantirli. Questo, ovviamente, vale a qualunque età della vita e dà la cifra della nostra presenza in una comunità. Ci fornisce anche la possibilità di essere protagonisti nell’affrontare problemi e costruire le soluzioni a partire dalle nostre esperienze e competenze. Uno degli errori più grandi nell’azione del volontariato è quello di limitarlo all’operatività, dedicando qualche ora del nostro tempo per lavarsi la coscienza.
Torniamo sulla questione generazionale. Proprio il volontariato potrebbe costituire una pratica virtuosa per il dialogo e la relazione intergenerazionale?
Chi ha più anni alle spalle ha un bagaglio di esperienze e, direi, di saggezze come patrimonio personale. La cosa è tanto ovvia quanto misconosciuta nelle nostre società. La questione è tornata di attualità anche grazie all’impegno di Papa Francesco, che su questo punto insiste molto. Gli stili di vita si fondano sull’esempio che ci viene dato da chi ci ha preceduto. E questo partendo dalla famiglia. Da lì, penso, occorre partire per valorizzare ogni età e fase della propria esistenza. Ci sono esperienze virtuose che provengono da alcuni Paesi. Mi viene in mente una nazione come il Canada, dove nelle case di riposo – i corrispettivi delle nostre Rsa – sono sorti degli asili con i bambini che li frequentano. Da quanto so il risultato è stato bellissimo e si può parlare di esperimento riuscito, anche per valorizzare e quindi trasmettere le esperienze di vita vissuta rivolte alle nuove esistenze che si stanno formando e stanno crescendo. Esperienze simili stanno attecchendo anche in Germania.
Per concludere, in Italia cosa le viene in mente quando pensa al volontariato e alla terza età?
Le tantissime persone che portano avanti questo stile di vita, che si fa impegno fattivo e porta tanti benefici a chi lo svolge. A quanti mettono a disposizione la loro esperienza e competenza, con più tempo e libertà a disposizione, per la comunità e, in particolare, per chi sta più indietro. E parlo di casalinghe, operai o piccoli e grandi imprenditori. Un esempio? Il gruppo dei “Seniores”, associazione costituita da Cesare Taviani. All’interno della Banca di Roma e partendo dall’esperienza tedesca, con l’impegno di puro volontariato ha messo in campo manager, dirigenti e professionisti ormai in pensione e con problematiche personali legate proprio alle difficoltà di distacco dal mondo del lavoro, che operano – anche viaggiando – in progetti di cooperazione allo sviluppo.
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