Pierpaola Corso. Ex insegnante, con il “pallino” dell’arte a trecentosessanta gradi. Grande viaggiatrice ha iniziato a scrivere diari di viaggio per continuare con piccoli racconti. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Livorno.
Impossibile non ricordare. Era una mattina soleggiata di primavera. Le rondini volavano intorno garrendo ai primi tepori mentre gli alberi presentavano poche infreddolite gemme. Tutto era luce avvolgente. Avrei dovuto essere raggiante anch’io. Invece avevo l’asma e lo stomaco in subbuglio. Avrei preferito rimanere a casa nel mio letto, o essere trasparente, sparire alla vista di mia madre che andava avanti e indietro tra le stanze borbottando. Mio padre cercava con cura di evitarla, di sottrarsi a quell’ansia che si sentiva rovesciare addosso, ma non sempre ci riusciva. Il vestito bianco tipo saio era appeso con la sua gruccia allo sportello dell’armadio, pronto già da ore. Al posto del velo da sposa tenuto insieme da corona brillantinata, che altre avrebbero indossato, io stavo per infilarmi una cuffietta bianca di piquet con mughetti ai lati, come l’Olandesina di una pubblicità del Carosello. Mi piaceva così tanto che dovettero farmela fare da una modista rinomata in città. Tre noiosissime prove con cuciture semiaperte e filze ciondoloni. Ero ovviamente l’unica ad averla e ne ero felice, ma quando finalmente la indossai subito prima di uscire … delusione! All’Olandesina donava, a me no. Ormai era fatta. Finii di prepararmi e presi il rosario che avrei dovuto tenere in mano per tutto il tempo della Messa. La primavera era la stagione prediletta a quel tempo per rinnovare il guardaroba: un bel completo in fresco di lana per gli uomini, abiti leggermente svasati, stile Chanel, per le signore, con o senza giacchina. Per i bambini abiti e cappottini leggeri, di solito di una taglia più grandi, come si usava dire allora “a crescenza”, perché dovevano durare a lungo. Io adoravo le mie scarpine bianche con fiocco. Ricordo gli occhiali a farfalla di mia madre e il suo completo in seta: abito con bolero; sotto la fronte stempiata gli occhi grigio-verdi di mio padre che mi guardava orgoglioso; i suoi capelli a spazzola che io amavo toccare lievemente per l’effetto di solletico che mi provocavano alla mano; i capelli grigi, cotonati, raccolti e fermati da una fibbia a fiocco di mia nonna; il completo scuro e la camminata un po’ pesante di mio nonno che quasi ad ogni passo lasciava righe nere sul pavimento. Raccolsi tutto il mio malessere fisico e il disappunto estetico e mi avviai in chiesa con mamma e papà, gli altri sarebbero arrivati dopo. Avevo dieci anni, tanta sofferenza e poca convinzione: contrariamente ai miei compagni di catechismo non mi importava molto della festa che avrebbe seguito l’evento religioso, tanto non avrei potuto mangiare quasi niente. Mi preoccupava il fatto di non sentirmi a mio agio, cristianamente parlando. Erano i miei soliti malesseri che da nove anni devastavano la mia vita o solo la paura di una bambina davanti ad un evento così importante? Sia il parroco che la suora del catechismo ci avevano descritto concetti così astratti con paroloni incomprensibili per la nostra età: consacrazione, transustanziazione. Mah! Dio. Non potevo immaginarlo, perché non aveva un corpo. E come può essere un puro Spirito, un’Essenza Divina? Uno che non è mai nato né mai morirà e che per giunta è diviso in tre. Se lo dovevo pregare avevo bisogno di una figura di riferimento, un po’ come quando, da piccolina, chiedevo un regalo a Babbo Natale, vestito di rosso, con la lunga barba bianca e piccoli occhiali dorati. I minuti passavano veloci ed io mi stavo ingarbugliando in questi pensieri. Mi sembrava di fare peccato. E dovevo fare la prima comunione, cioè prendere in me il corpo di Gesù Cristo!
Eravamo ormai seduti uno accanto all’altro sulle panche davanti all’altare. Qualcuno stava già attento, altri continuavano a distrarsi guardando i vari familiari che si disponevano dietro a noi. Il mio malessere aumentava. La messa andava avanti. All’ultimo momento dovetti farmi accompagnare in canonica dove vomitai fuori da un terrazzino. I miei erano ancor più in ansia. Rimasi qualche attimo lì, con la suora seduta accanto a me che continuava a ripetermi di pregare suggerendomi le parole. Il prete dall’altare sbirciava ogni tanto un’altra suora che a cenni gli faceva capire come stavo. Non potevano certo correre il rischio che io vomitassi l’ostia, sarebbe stato un sacrilegio. Non era un buon inizio. Avevo la sudarella, mi prudeva la testa e la mia bella cuffietta bianca l’avrei volentieri volata giù da quello stesso terrazzino. Finalmente smisi di dare di stomaco e il prete decise di darmi l’ostia, per ultima. Mi fecero uscire dalla canonica direttamente sull’altare e mi inginocchiai sul primo gradino di marmo, scomodo più della panca. Sbirciai a lato e vidi i miei compagni seduti composti, tutti insien1e. Più in là i miei parenti un po’sollevati. Ricevetti così la mia prima comunione. Mi sentii sola, ridicola e con quel peso addosso: la mia sincerità un po’ traballante verso il Signore che si era immolato anche per me.
Seguì la festa in un bel giardino. Il sole e la confusione mi infastidivano, ma cercai di resistere ancora per le ultime due ore. Sfogliai i regali ricevuti, tipici di quel tempo: una penna d’argento nel suo bell’astuccio grigio perla, una medaglietta d’oro con la Madonna di Montenero, un Rosario in argento che tengo tuttora con amorevole cura, un libro e, fuori dal comune, un microscopio a 30 ingrandimenti! O forse più, ma non ricordo. Tanti gli auguri, le felicitazioni e i rallegramenti, ma tanto anche il dispiacere per i miei malesseri e turbamenti. Poi arrivarono le leccornie. Tutti festeggiarono mangiando pasticcini, tartine e fette di dolce. A me toccò solo una tazza di thé ed ero digiuna dalla sera prima. Pazienza. Co1ne diceva la suora, sarebbe stato un Fioretto per il Signore.