Carmen Pezzetta.
Mamma e nonna, ex imprenditrice, da sempre appassionata lettrice e scrittrice. Scrive anche racconti in lingua friulana. Al Concorso 50&Più nel 2012 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa e nel 2013 la Superfarfalla sempre per la prosa. Vive a Pozzuolo del Friuli (Ud).
Mi chiamo Theresa, e credo di essere stata sola da sempre.
Intendo la solitudine come forma mentale, come carattere, come attitudine.
Eppure dentro di me sentivo di avere tanto da dare, ma forse la vita con le sue prove, con le sue tristezze, mi aveva forgiata così, con questa tendenza ad isolarmi, con questa fatica a relazionarmi, con questo pessimismo di fondo.
Uno dei primi ricordi che ho sono le prese in giro dei miei compagni di scuola: “Eccì, eccì”, mi gridavano dietro, perché il mio nome, letto all’americana col “TH”, come mi chiamavano i familiari “Thrissa”, suonava come uno starnuto e in un paesino di campagna come il nostro non era motivo di vanto, anzi, mi rendeva oggetto, oggi si direbbe, di bullismo.
Eppure ero brava a leggere, anche a recitare, nei piccoli teatrini parrocchiali o scolastici, ma la timidezza imperava e difettava la sicurezza.
I tempi erano duri, erano gli anni venti o poco più, la miseria era tanta e presto dovetti aiutare la famiglia perché c’erano tante bocche da sfamare.
Una zia suora ci trovò una famiglia ricca di Roma presso cui andare a servizio e così dovetti interrompere la scuola alla quinta elementare e affrontare questa nuova prova: il lavoro e la lontananza da casa ancora ragazzina. Soffrii tanta malinconia.
Alloggiavo in un convento di suore e da allora mi è rimasta dentro l’allergia ai conventi. Non c’era amore là dentro, né comprensione per me, mi sentivo molto sola e non riuscendo ad esternare questi miei sentimenti mi chiudevo sempre più in me stessa.
Le mie giornate erano faticose nella famiglia a cui ero stata destinata. Si pretendeva molto da me, e la domenica, unico giorno libero che avevo, ero costretta a rimanere in convento con le suore, non essendomi permesso di uscire da sola. Unico svago erano le celebrazioni e i libri e da allora mi appassionai molto alle lettura.
La mia religiosità era una dimensione interiore profonda, tradizionale ma non bacchettona, anzi, non riuscii mai ad accettare un certo devozionismo.
Durò qualche anno questa esperienza e mi fece soffrire molto, facendomi entrare ancor più in un mio solitario mondo interiore, infatti non ebbi mai grandi amicizie.
Fui richiamata a casa, la mamma aveva avuto un incidente e io avrei dovuto sostituirla badando ai fratellini più piccoli, così per qualche anno questa fu la mia vita.
Ai ventuno anni, ebbi un’altra opportunità. Data la mia cittadinanza americana, (infatti i miei genitori erano stati emigranti in America e là erano nati i primi due figli) potevo raggiungere il fratello maggiore che già era partito per quel paese e cercare anch’io fortuna in quel mondo.
Lo feci, non senza grandi turbamenti interiori. Lasciare di nuovo mamma e papà e quattro fratelli più piccoli e partire per un luogo così lontano e diverso mi spaventava, ma in Italia la situazione era molto difficile, non c’era possibilità di lavorare e poi l’idea di quel viaggio in nave, l’opportunità di vedere tante cose nuove e la prospettiva che mi spalancava mi attiravano.
Così abbracciai i miei e partii. Stetti molto male durante il lungo viaggio in mare e la vita nella famiglia di mio fratello, che nel frattempo si era sposato, non fu tanto facile. Mi armai di coraggio e affrontai la vita di operaia in una fabbrica di vestiti. Imparai la lingua e imparai a cucire in serie. Da allora il ditale e l’ago furono la mia quotidiana compagnia per quarant’anni.
Rientravo a casa la sera ma mi sentivo sempre più di peso in quella famiglia, anche se mi rendevo utile badando ai bambini che erano nati nel frattempo, così, appena potei, cercai un appartamentino modesto, in affitto. Il mio destino mi portava ancora una volta alla solitudine, però la gioia di essere indipendente smorzava un po’ l’amarezza per questa situazione.
I momenti liberi dal lavoro servivano per la spesa, la pulizia della biancheria e della casa, la cura della mia persona. Su questo sono stata sempre molto accurata. Apparire in ordine, ben vestita anche se modesta, e pettinata era per me essenziale. Come pure fu sempre importante per me l’ordine, la salubrità nel mangiare e una stretta economia: ero la classica formichina. Nessun diversivo, nessuno svago, tutto quello che risparmiavo lo mandavo alla famiglia in Italia.
Questa vita quasi ascetica non ha di certo favorito la nascita di amicizie, avevo solo qualche collega sul lavoro con cui scambiare quattro chiacchiere nelle pause, e la vicina di casa. I rari incontri con la comunità del “Fogolâr Furlan” di cui alcune persone che ne facevano parte erano proprio dei compaesani, rompevano di quando in quando la monotonia delle giornate. Sì, ci fu qualcuno che mi fece battere il cuore ma appena seppi che era già stato sposato e separato anche se era interessato a me non potei mai venire a patto con le mie convinzioni profonde e così scelsi di rimanere ancora una volta da sola.
Passavo le mie brevi vacanze andando a trovare i nipotini e i Natali e le varie festività erano l’occasione per accrescere la loro gioia con qualche regalino. Negli anni a venire ci furono anche due viaggi in Italia per rivedere la famiglia. Ora gli aerei rendevano questo più facile e possibile, ma ci volevano anni di risparmio per mettere da parte la cifra necessaria a partire.
Nel frattempo le lettere erano la mia unica compagnia, l’unico modo per coltivare gli affetti con le sorelle e la mamma lontane dato che il papà era mancato. Mi veniva un nodo in gola ogni volta che le prendevo in mano ma non potevo farne a meno, erano l’unico filo che mi teneva legata a quelle care persone. Tra le righe cercavo di cogliere sentimenti, paure, desideri, ansie e cercavo a mia volta di esprimere i miei senza mai riuscirci appieno.
Così è passata la vita tra i doveri quotidiani necessari e i sogni infranti, gli amori mai vissuti e solo immaginati in un cinema. Sembra impossibile ma è arrivato il giorno della fatidica pensione e mi son detta: “Ora che faccio? Rimango qua da sola o ritorno in Italia?”.
E così un giorno ho tagliato ancora una volta i pochi legami e sono ritornata al mio paese.
Per compagnia sempre me stessa, pochi bauli mi hanno seguita nel viaggio di ritorno: l’adorata macchina da cucire comprata con tanta fatica, alcuni libri, pochi vestiti era il bagaglio di quarant’anni di solitudine.
Pensavo che avrei concluso i pochi anni che mi rimanevano guardando di nuovo le montagne del Friuli e rivedendo qualche faccia amica tra i miei compaesani, ma la vita è strana, alle volte. A me, sempre gracilina, tanto che la mamma aveva allattata per tre anni per rinforzarmi, la vita ha concesso altri trent’anni di esistenza. Sono arrivata ancora lucida fino a novantasette anni e tranne l’ultimo anno in cui ho avuto bisogno di assistenza, mi sono arrangiata sempre da sola, seppure sostenuta dalle sorelle e dai nipoti italiani che mi son stati vicino. Sono stati anni sereni. Non so se è stata una vita felice, non me lo chiedo, era la mia e l’ho accettata. Forse sono stata troppo remissiva e abitudinaria, o forse non ho avuto il coraggio di “osare” altro. Semplicemente sono andata avanti giorno per giorno, fino a quando il Buon Dio mi ha detto: “Vieni, cara Theresa, insieme ci faremo compagnia!”.