A fine maggio, le proteste dei serbi contro l’esito delle elezioni in quattro comuni del nord sono degenerate in scontri con le forze di sicurezza della Nato. È solo l’ennesimo episodio di tensione in una regione martoriata
Lo scorso 29 maggio il mondo è scosso da una notizia: 41 militari del Kfor (Kosovo force), la milizia internazionale a guida Nato impegnata a garantire la sicurezza nella regione, restano feriti nel corso di scontri con dimostranti serbi a Zercan. Nella città, come in altri tre centri del nord del Kosovo, si sono appena svolte le elezioni amministrative. I serbi, la maggioranza della popolazione, hanno boicottato le consultazioni, vinte perciò da candidati albanesi, salvo protestare con forza contro l’insediamento dei nuovi sindaci. La polizia kosovara, formata da personale albanese dopo che i serbi hanno abbandonato le forze armate, ha disperso i manifestanti attirandosi accuse di comportamenti violenti e inducendo il presidente serbo Vucic ad allertare l’esercito ai confini col Kosovo. La Kfor prende in mano la situazione: chiede ai dimostranti serbi di sgomberare l’area del municipio di Zercan e, di fronte al loro rifiuto, interviene a disperderli. Secondo alcune testimonianze, i militari impiegano gas lacrimogeni e bombe sonore, ma anche i manifestanti lanciano esplosivi rudimentali, sassi e bottiglie. Il generale Angelo Michele Ristuccia, capo della missione Nato in Kosovo, dichiara che «gli attacchi al contingente militare sono inaccettabili» e che, in ogni caso, «la Kfor continuerà ad adempiere al suo mandato in maniera imparziale». L’inviato dell’Unione europea per i Balcani occidentali, Miroslav Lajcak, auspica una rapida de-escalation e la convocazione di nuove elezioni amministrative organizzate in modo pienamente inclusivo.
«Il Kosovo è ancora una ferita aperta – afferma Stefano Bianchini, professore di Storia e Politica dell’Europa Orientale all’Università di Bologna -. In base all’accordo con la Serbia del 2013, mediato dall’Unione europea, i comuni del nord a maggioranza serba hanno diritto a un’amministrazione e a forze di polizia che ne rispecchino la composizione etnica. Ma i serbi del nord del Kosovo, esclusi dai negoziati, hanno negli anni ostacolato l’attuazione dell’intesa. È solo l’ultimo capitolo di una questione complessa, con profonde radici storiche. Il Kosovo – territorio con popolazione a maggioranza albanese e musulmana – fu inglobato alla Serbia, come provincia, al termine delle guerre balcaniche del 1912-13. Dopo la Prima guerra mondiale passò al neonato stato della Jugoslavia. Nel periodo del socialismo, in particolare dal 1968 alla fine degli anni Ottanta, il Kosovo ha beneficiato di un’ampia autonomia: solo un passo indietro rispetto alle sei repubbliche della Jugoslavia (Serbia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Slovenia, Macedonia e Montenegro) che godevano per norma costituzionale del diritto di secessione. Dopo la morte del maresciallo Tito e l’ascesa di Slobodan Milosevic le cose cominciarono a cambiare. Proprio a causa di atti ostili degli albanesi contro i serbi in Kosovo, Milosevic pronunciò la famosa frase per cui nessuno poteva permettersi di picchiare un serbo, diventando all’istante il dio dei nazionalisti di Belgrado. Nel 1989 Milosevic ridusse drasticamente l’autonomia del Kosovo determinando la nascita di un governo ombra presieduto dallo scrittore Ibrahim Rugova, albanese e musulmano, che proclamò l’indipendenza della regione (riconosciuta dalla sola Albania) e cominciò una contestazione pacifica del potere di Belgrado».
La guerra civile in Jugoslavia, conclusasi con gli accordi di Dayton del 1995, non modificò lo status del Kosovo e in larga parte della popolazione si diffuse l’idea che la strategia pacifista di Rugova non avrebbe prodotto risultati. «Nacque – ricorda Bianchini – l’UCK, il movimento di liberazione del Kosovo, da molti considerato una formazione terroristica, che mirava con azioni dimostrative e attentati ad attirare l’attenzione internazionale sulla regione. La federazione di Serbia e Montenegro, quel che rimaneva della Jugoslavia, reagì violentemente inviando in Kosovo l’esercito e, di fronte alla richiesta di ritiro degli Stati Uniti, guidati dall’amministrazione Clinton, rifiutò ogni passo indietro. La Nato decise allora (senza l’approvazione dell’Onu) di bombardare Serbia e Montenegro per tre mesi, da marzo a giugno del 1999, causando enormi distruzioni e propiziando l’accordo di Kumanovo del 9 giugno, che sanciva il ritiro delle forze armate serbe dal Kosovo. In base alla successiva risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu in Kosovo fu installato il contingente di Kfor, per mantenere la pace, e l’Unmik (United Nations Interim Administration Mission in Kosovo), con compiti amministrativi, da condividere con un governo e un parlamento locale». La graduale prevalenza delle forze nazionaliste in queste istituzioni ha portato alla dichiarazione di indipendenza unilaterale del Kosovo, il 17 febbraio 2008. Una nuova costituzione, che ampliava i poteri del governo e del parlamento kosovaro, fu approvata nello stesso 2008 e accettata dalle autorità internazionali. La Serbia rifiutò di riconoscere la dichiarazione di indipendenza e la denunciò alla Corte Penale Internazionale, che l’ha ritenuta legittima sospendendo però il giudizio sulla validità degli effetti. Ad oggi 101 Stati dei 193 che compongono l’Onu (tra cui l’Italia) riconoscono l’indipendenza del Kosovo, mentre si oppongono paesi come la Russia, l’India e la Cina. Bianchini non nega la delicatezza del problema: «È probabilmente un’esagerazione propagandistica presentare il Kosovo come una possibile nuova Ucraina, ma certo il puzzle politico di questa piccola regione nel cuore dei Balcani resta complicato. Da entrambe le parti ci sono mistificazioni e colpi bassi, segno di contrapposizioni coriacee. Nonostante le pressioni internazionali, non si intravedono ancora soluzioni soddisfacenti e durature».
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