Mi scrive una lettrice un po’ arrabbiata, Lucia, ma decisamente simpatica: «Ho 76 anni. Quindi sono entrata in quella parte della vita che chiamano vecchiaia, ma io non me ne sono accorta. Sto abbastanza bene, ho una pensione non certo ricca ma sufficiente. Vivo in una casa di proprietà con un gatto che si chiama Robin e non mi sento poi così sola, anche se sono separata da tanti anni. Leggo molto, anche romanzi che ho già letto. Mi piace lavorare con le mani, sferruzzo, ricamo, intreccio borse di paglia, e non soltanto per tenermi impegnata, ma perché mi piace. Perché dovrei essere infelice?».
La domanda “perché dovrei essere infelice” arriva nella terza pagina (la lettera è molto lunga e scritta a mano) e la risposta non esiste. Lucia è scandalizzata perché tutti parlano della sua età come di una situazione penosa. E cercano di rassicurarla o di compiangerla.
Scrive: «Sono stata sposata, ho cresciuto due figli, ho insegnato italiano alle scuole medie superiori per quarantacinque anni; i miei figli non li vedo spesso, la femmina vive all’estero e il maschio in Italia, ma in un’altra città. Probabilmente non li vedrei spesso neanche se abitassero qui, a Milano, dove abito io, perché hanno la loro vita e non mi piace imporre la mia presenza solo perché sono la loro madre».
Sottoscrivo, parola per parola. Lucia mi sembra una donna simpatica, appunto, ma anche serena ed equilibrata. Poche righe dopo scopro qual è il suo segreto. Scrive: «Alcuni dei miei ex allievi preferiti vengono ancora a trovarmi».
Ce n’è di recenti, che hanno 25 o 30 anni, ma anche di più antichi, che stanno ormai nella zona dei “cinquanta e più”. Lucia li riceve, li ascolta e offre il caffè, ma anche loro ascoltano lei, curiosi del suo sguardo, della sua esperienza, dell’affetto disinteressato con cui segue i fatti loro. È questo, in fondo, che dà forza a Lucia: frequenta gente di generazioni diverse dalla sua. L’ha fatto per tutta la vita, per professione, certo, ma anche quando è andata in pensione ha continuato. Non è facile. Ci avete fatto caso? Tutti stringono legami di amicizia con persone che hanno più o meno la loro età. Gusti in comune. Spesso lo stesso genere d’appartenenza: i maschi coi maschi, al bar, alla partita. Le femmine con le femmine: le confidenze, l’adorabile esercizio del pettegolezzo, lo shopping. Quasi sempre la stessa classe sociale o lo stesso livello culturale. Si chiama “omofilia”. E no, non è una strana malattia, è una inveterata abitudine mondiale: l’abitudine di amare (filia) gli affini, i simili, quasi che i diversi ti mettessero ansia.
È così? Davvero andare a prendere un caffè con una quarantenne che non è tua figlia né la figlia di tuo fratello ti sembra una stranezza? Prova. Avrai una sorpresa. Come è stato sorprendente, per me trentenne, intrecciare un’amicizia con Ivanka Veltroni, che di anni ne aveva 60 (era la mamma del celebre Walter che, anni dopo, diventerà sindaco di Roma e che ha più o meno la mia età). Lei mi raccontava la vita come sarebbe diventata, e che cosa dovevo fare per evitare i passaggi più stretti, io le parlavo senza censure e la ascoltavo con gratitudine. Sono belle le amicizie fra diversi: come quelle fra un uomo e una donna, che l’avanzare dell’età facilita, non ci si deve più per forza corteggiare e si può finalmente ridere insieme. Certo, essere o essere state “prof” è un bell’aiuto se si vuole frequentare ragazzi, ma ci possiamo provare tutti, noi Grandi Adulti, basta non farsi intimidire dalla giovinezza degli altri come capita spesso a chi ha una lunga vita dietro di sé. E allora: impariamo a essere spericolate, sporgiamoci verso chi occupa, nel viaggio della vita, altri paesi… novantenni, diciottenni, bambini… e, come Lucia, ci chiederemo stupiti: «Ma perché dovrei essere infelice?».
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