Secondo il professor Enzo Ciconte, sono tante le organizzazioni criminali che pur di farsi strada utilizzano più i social network anziché i tradizionali metodi violenti. Anche per questo dobbiamo imparare a riconoscerle subito
«Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci hanno lasciato in eredità un grande insegnamento: la professionalità e l’impegno, nel rispetto delle regole e delle persone, con una dedizione totale al proprio lavoro».
Così Enzo Ciconte, docente di Storia delle mafie all’Università di Pavia, fra i massimi esperti di criminalità organizzata, nonché consulente presso la Commissione parlamentare antimafia dal 1997 al 2010, ricorda i due magistrati.
Da allora la mafia è cambiata molto: qual è stata la sua evoluzione?
Fino a quarant’anni fa la mafia non esisteva nel codice penale, eppure era presente almeno dall’Unità d’Italia. Ci sono voluti gli omicidi di Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa e tanti altri per arrivare alla legge, nel 1982 (Legge 646/82 Rognoni-La Torre), e grazie ad essa all’avvio del maxiprocesso, nel 1986. Sei anni dopo, la Cassazione conferma l’impianto accusatorio e per la prima volta vengono condannati dei capimafia. In questi trent’anni i corleonesi, cioè coloro che fecero in modo di uccidere tutti gli uomini eccellenti – compresi Falcone e Borsellino – hanno visto restringersi lo spazio di manovra perché i loro rappresentanti sono finiti in carcere al 41bis oppure sono morti, come Riina e Provenzano.
Questo non significa che la mafia sia stata sconfitta, ma da allora gli altri gruppi mafiosi sono stati costretti a lavorare sulla difensiva, e non hanno più avuto quella rete di protezione di cui godevano i mafiosi corleonesi. L’organizzazione che invece è cresciuta è stata la ’ndrangheta calabrese, che ha cominciato ad espandersi al Nord e all’estero mentre, dal 1992 in poi, lo Stato guardava a Cosa Nostra. La camorra, dopo il disfacimento dei Casalesi, non è stata più la stessa, anche se nel napoletano restano frange criminali che si contendono il territorio. La Sacra Corona Unita ha chiuso la sua stagione di sviluppo, anche se resta in piedi la mafia foggiana, ancora oggi molto violenta.
In questo panorama qual è stato l’atteggiamento della politica?
La politica ha attraversato periodi in cui è stata più sensibile alla lotta alla mafia, altri in cui è stata coinvolta nella mafia attraverso alcuni suoi rappresentanti. Il mio timore è che oggi, siccome i mafiosi non sparano più come prima, possa riprendere piede l’antico rapporto con la mafia, considerato che non ha più lo stigma sociale di un tempo per il drastico calo dei fatti di sangue. Ma i mafiosi non spariscono anche in assenza di comportamenti violenti, e bisogna ricordarlo.
Insegnando all’università, quale risposta trova nei giovani rispetto al tema della lotta alla mafia?
Ci sono giovani entusiasti che scelgono questo insegnamento (Storia delle mafie, n.d.r.), ed è fondamentale portare avanti una battaglia culturale, perché se pensiamo di affrontare il problema solo in termini di repressione e anni di carcere, non andiamo da nessuna parte. Anche i mafiosi oggi comunicano attraverso i social e gli stessi strumenti di tutti, offrendo i loro modelli. Dunque è fondamentale proporre sempre un’alternativa basata sulla cultura del rispetto.
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