Di diritto sono in pensione, ma di fatto non la percepiscono: è il paradossale “limbo” in cui oggi si trovano molti, ancora in attesa dell’erogazione della prima mensilità previdenziale.
I tempi sembrano essersi allungati inesorabilmente per loro. Perlomeno quelli relativi all’intervallo trascorso tra la decorrenza del diritto e l’accoglimento o il respingimento della domanda.
Il primo trimestre 2019 ha registrato, infatti, un rallentamento nei tempi medi di liquidazione delle pensioni di vecchiaia e di quelle anticipate: per l’esattezza 53 giorni per i dipendenti privati (+10% rispetto al 2018) e 76 giorni per i dipendenti pubblici (ovvero un +52% rispetto ai 50 giorni del 2018).
È quanto si evince dai dati della Direzione centrale Pensioni Inps contenuti nel Rendiconto sociale. Eppure un’altra Direzione Inps, quella di Pianificazione, ha fornito dati non concordanti con i primi, stavolta relativi al primo semestre di quest’anno: qui i tempi medi di liquidazione scendono a 24 giorni per i privati e a 29 giorni per i pubblici.
Ma com’è possibile passare dai 53 giorni del primo trimestre ai 24 del primo semestre per i privati e dai 76 ai 29 giorni per i pubblici? Se i due dati fossero compatibili, l’Inps avrebbe persino liquidato, nel secondo trimestre 2019, gli assegni in anticipo rispetto alle decorrenze pensionistiche.
Inoltre, l’indice di giacenza delle pensioni, cioè l’attesa per l’esame delle domande, al 30 giugno di quest’anno è salito rispetto al 2018, passando da 52 a 62 giorni medi per i privati e addirittura sino a 222 giorni per i pubblici.
Numerose lettere di protesta e indignazione sono giunte alle redazioni di molti quotidiani, narrando una situazione ormai critica per molti pensionati alle prese con burocrazie respingenti, pellegrinaggi agli sportelli, ansia e rassegnazione.
Si chiedono perché, dopo una vita di lavoro, debbano aspettare mesi senza avere risposte o almeno un’interlocuzione con l’Istituto. In molte grandi città, poi, sembra non sia più possibile prendere un appuntamento con chi ha in carico la propria pratica.
Noi pensionati senza pensione, articolo pubblicato di recente su Repubblica, contiene alcune delle storie di chi ha protestato. La casistica è varia: c’è Gelsia Farignoli, “furiosa” perché il marito di 67 anni, in pensione dal 1° agosto, deve ancora riscuotere la sua prima pensione. Mentre continua a pagare tasse e bollette, il suo stato d’animo oscilla fra rabbia e depressione. C’è Francesco Casella di Milano, 65 anni e 43 di contributi, docente di liceo: parla di una “burocrazia anonima che oppone sordi muri di gomma a chi pretende solo un suo diritto”. L’ultimo stipendio risale al 23 agosto, ma intanto deve far fronte a ingenti spese e si sente impotente. Rita Padoan, ex medico ospedaliero, 47 anni e 6 mesi di contributi, è in pensione dal 1° giugno (ultimo stipendio il 27 maggio), ma non ha ancora ricevuto l’assegno, nonostante i solleciti inoltrati alla sede Inps di Milano. Fioralba Giordani, infermiera di Roma con 42 anni di contributi, racconta che, dopo la lettera, l’Inps si è impegnata a erogarle la pensione sì, ma non prima del 20 gennaio prossimo. Alcuni, a due anni dalla quiescenza, non hanno ancora potuto incassare la liquidazione e si chiedono se siamo ancora in un Paese civile.
L’Inps ha avviato in questi mesi un consistente piano di assunzioni e il nuovo servizio “Inps per tutti”, varato a luglio, che – si legge sul sito dell’Istituto – serve a “favorire l’integrazione sociale e promuovere il contrasto alla povertà”. Sulla sua efficacia però non esistono ancora dati standardizzati disponibili e lo stato di fatto sopra descritto prosegue anche per le domande di pensione in fase di presentazione nel secondo semestre 2019.
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