A causa di slittamenti dovuti al prolungarsi dell’emergenza sanitaria e dalla guerra in Ucraina, la riforma previdenziale stenta ad avviarsi. E il tempo stringe
Ci eravamo lasciati, ad inizio anno, con l’esame delle novità previdenziali (“Quota 102”; proroga della “Opzione Donna”; potenziamento dell’APE Sociale) introdotte dalla Legge di Bilancio 2022.
Si trattava di “misure ponte”, figlie della oggettiva difficoltà di individuare, in quel frangente, misure strutturali che consentissero di “superare” la Legge Monti-Fornero ed evitare lo scalone che si sarebbe creato a seguito del mancato rinnovo della fallimentare “Quota 100” (a cui potranno comunque accedere, anche nei prossimi mesi e anni, i lavoratori che abbiano maturato entro il 31 dicembre 2021 i requisiti richiesti) e che fossero al contempo sostenibili per la finanza pubblica da un lato e non penalizzanti per i lavoratori dall’altro.
Il Governo e il Parlamento avevano ritenuto di adottare per il momento soluzioni interlocutorie, con l’impegno di affidare poi a specifici tavoli tecnici con le parti sociali il compito di indicare soluzioni e misure di tipo strutturale da adottarsi a partire dal 2023.
Il senso di urgenza e di premura che si avvertiva su questa materia nel dibattito politico faceva ipotizzare che questi tavoli sarebbero stati convocati a stretto giro ed in sede pressoché permanente e che, dopo un lavoro serrato, avrebbero partorito in tempi congrui una vera riforma che potesse superare la frammentarietà delle misure previdenziali esistenti, fornendo così certezze ad una platea di lavoratori e cittadini spesso disorientati.
Nei primi mesi del 2022 un tavolo tra Governo e sindacati per trovare soluzioni relative alla flessibilità in uscita dal mondo del lavoro è stato effettivamente avviato, ma si è trattato per ora di approcci non risolutivi, i lavori sembrano procedere a rilento ed una sintesi sembra ancora lontana.
Poi, certo, si sono verificati avvenimenti che hanno – comprensibilmente – spostato il centro dell’attenzione e modificato l’ordine delle urgenze. Per citare solo quelli più rilevanti: il prolungarsi dell’emergenza sanitaria; l’aumento del prezzo delle fonti energetiche; l’aggressione russa all’Ucraina e la guerra che ne è conseguita, con tutto il suo carico di drammi umanitari e di ripercussioni economiche.
Fatto sta che, al giro di boa di metà anno, la riforma previdenziale sembra – salvo improbabili accelerazioni estive – ancora in alto mare. E l’ipotesi che l’arrivo del 2023 ci sorprenda senza che nessun riordino strutturale delle forme pensionistiche sia stato varato si fa, purtroppo, sempre più realistica e concreta, con la conseguente prospettiva di un sistema sempre più caotico, con nuove “misure tampone” che ci facciano guadagnare (?) un altro anno di tempo, oppure con il ritorno alla tanto vituperata Legge Monti-Fornero.
Certo, la difficoltà di trovare una soluzione efficace trova una spiegazione nella intrinseca complessità che caratterizza, obiettivamente, la materia previdenziale, nonché nella necessità di garantire un difficile e delicato equilibrio tra equità sociale e sostenibilità finanziaria.
Tuttavia, pur nel difficile contesto che stiamo vivendo, il tema delle pensioni non può non avere un’importanza centrale in un Paese come il nostro, caratterizzato da un’età media molto elevata (età “mediana” pari a 47 anni, la più alta d’Europa, come ricordato recentemente dallo stesso Presidente del Consiglio Draghi), da un bassissimo indice di natalità (6.8 per mille abitanti nel 2021) e da un’aspettativa di vita fortunatamente in crescita (83,4 anni di media; uomini 81 anni; donne 85,6 anni).
Una recente ricerca, condotta su un campione di giovani tra “Gen Z” (nati tra il 1995 e il 2003) e “Millennial” (nati tra il 1983 e il 1994), ha evidenziato – accanto ad una forte sensibilità sui temi ambientali e ad una forte preoccupazione per il cambiamento climatico (forse, allora, una speranza c’è!) – anche una profonda sfiducia sulle prospettive di lavoro e previdenziali: solo il 28% dei “Gen Z” e il 30% dei “Millennial” (su un campione di 800 giovani italiani) esprime la fiducia di poter andare in pensione ed essere tranquillo dal punto di vista finanziario.
È di questi giovani (che, rispetto ai loro padri, devono già confrontarsi con un mondo del lavoro sempre più complesso, con prospettive di carriere discontinue, frammentate e precarie) che dobbiamo preoccuparci; è a loro che è necessario dare certezza, preoccupandoci di garantire loro prospettive pensionistiche adeguate (la proposta di una “pensione di garanzia” è ancora sul tavolo) almeno quanto ci preoccupiamo – giustamente – di favorire un’uscita adeguata dei lavoratori più prossimi al termine della loro carriera lavorativa. La riforma che verrà dovrà quindi essere “strabica”.
Da una parte dovrà guardare all’immediato, razionalizzando (in attesa del 2035, quando le pensioni saranno calcolate esclusivamente con il sistema contributivo che prevede, a certe condizioni, uscite flessibili a partire da 64 anni) le molteplici forme di pensionamento oggi esistenti, con l’introduzione – ad esempio, come ipotizzato da diversi studi recentemente pubblicati – di forme di flessibilità in uscita mediante quote flessibili (senza la rigidità dei singoli requisiti delle “Quote 100 e 102”), la cui sostenibilità potrebbe essere garantita da una riduzione dell’importo proporzionata agli anni di anticipo rispetto alla data prevista per il pensionamento di vecchiaia.
Dall’altro lato, però, la revisione del sistema previdenziale deve avere anche un orizzonte temporale più ampio, creando strumenti in grado di garantire risorse adeguate ai lavoratori (i più giovani) ai quali si applica integralmente il sistema contributivo e cercando di incidere su tutti quei fenomeni demografici e quelle variabili produttive ed economiche che influenzano lo scenario previdenziale.
E allora, va data priorità alle misure per incentivare la crescita del tasso di natalità (l’Assegno Unico ed Universale per i figli a carico non è sicuramente sufficiente), vanno create le condizioni per un sano equilibrio tra lavoro e vita privata e per lo sviluppo dell’occupazione femminile, e vanno soprattutto create le condizioni per una ripresa economica che favorisca lo sviluppo produttivo, la crescita dell’occupazione e il ricambio generazionale.
Sviluppo economico significa, infatti, maggiore benessere complessivo, maggiore occupazione, crescita delle retribuzioni (a retribuzioni basse corrispondono, con il sistema contributivo, pensioni basse; anche per questo il grande dibattito esistente sui “salari minimi”) e della stabilità economica, con il “circuito virtuoso” che ne consegue: maggiore fiducia nel futuro e nella progettazione familiare; incentivo alla nascita di nuove imprese; maggiori versamenti contributivi che tengano in equilibrio il sistema; maggiori rivalutazioni dei montanti contributivi individuali, maggiore possibilità per gli individui e le famiglie di destinare risorse ai consumi, ai risparmi, agli investimenti (ad esempio, nelle forme previdenziali complementari) ecc.
Un compito complicato, certamente difficile e, forse, politicamente non “remunerativo” (per il momento si deve solo costruire: i frutti si vedranno solo nel medio-lungo periodo). Eppure, se non avremo il coraggio di misurarci con un orizzonte temporale più ampio e di progettare e costruire per un futuro che vada oltre noi ed il nostro tempo, ci troveremo sempre a confrontarci con un sistema che rischia di diventare progressivamente sempre meno gestibile, sempre meno sostenibile e con l’eterna ricerca di un equilibrio, ogni giorno più difficile da trovare, tra le legittime esigenze dei lavoratori e le stringenti necessità di bilancio.
Ma la speranza è che, per una volta, il coraggio prevalga.
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