Chi sono i beneficiari di questa tipologia di pensione e qual è l’importo che si riceve, commisurato a molti fattori variabili. Una prestazione che, nel corso degli anni, è stata sottoposta a diverse modifiche.
Il tema delle pensioni e dell’introduzione di meccanismi di flessibilità in uscita dal mondo del lavoro per evitare lo “scalone” che scatterebbe dal 2023 costituisce, come tutti sappiamo, uno dei temi maggiormente dibattuti e che dovrà essere messo fin da subito al centro dell’agenda del nuovo Parlamento e del nuovo Governo.
Una tipologia di pensione di cui invece si parla molto poco – perché non collegata all’uscita dal lavoro – è la pensione ai superstiti, benché sia stata a più riprese oggetto di interventi legislativi e pronunciamenti della magistratura di legittimità e sia stata oggetto di rilevanti modifiche anche nel corso di questo anno 2022.
Questa prestazione viene riconosciuta a seguito del decesso del pensionato (prende il nome, in questo caso, di “pensione di reversibilità”) o del lavoratore non ancora pensionato (in questo caso si chiama tecnicamente “pensione indiretta”) che possa far valere almeno 15 anni di contribuzione o almeno 5 anni di contributi, di cui almeno 3 nel quinquennio precedente la data del decesso.
Ne beneficiano gli eredi legittimi del lavoratore/pensionato deceduto: il coniuge, i figli minori, quelli studenti fino 26 anni di età (se studenti universitari) o i figli inabili senza alcun limite di età. In assenza di coniuge e/o figli, possono aver diritto alla pensione ai superstiti anche i nipoti del deceduto o – purché vengano soddisfatte in questo caso particolari condizioni di età e vivenza a carico – i genitori o, in ultimo, fratelli e sorelle del deceduto.
Nel corso del 2022, la Corte Costituzionale (sentenza n. 88 del 5 aprile 2022) ha esteso la platea dei beneficiari, includendo tra i destinatari diretti ed immediati della pensione di reversibilità anche i nipoti maggiorenni orfani riconosciuti inabili al lavoro e viventi a carico del lavoratore deceduto.
Al coniuge spetta il 60% della pensione del deceduto, mentre a ciascun figlio spetta il 20%; quote maggiori spettano ai figli in assenza anche dell’altro genitore (70% in caso di un solo figlio; 80% in caso di due figli; ecc.); ai genitori e ai fratelli spettano quote del 15% ciascuno. In caso di quote che superino complessivamente il 100%, le quote stesse vengono riproporzionate fino a raggiungere il 100% della pensione percepita (o dovuta al, in caso di “indiretta”) dal deceduto.
A seguito della Legge “Dini” (Legge 335/1995), la quota di pensione ai superstiti così determinata può essere decurtata (del 25%, 40% o 50%) nel caso in cui il beneficiario possieda redditi propri superiori ai limiti di determinati scaglioni.
Proprio la questione della decurtazione del trattamento prevista dalla Legge “Dini” è stata – sempre nel corso del corrente anno – affrontata dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 162 del 30 giugno 2022) che ne ha riconosciuto la legittimità, ma ha stabilito che tale decurtazione non possa essere superiore all’ammontare complessivo dei redditi aggiuntivi.
Nel caso in cui non esistano le condizioni richieste per la pensione indiretta, in caso di decesso di un lavoratore già assicurato al 31/12/1995, è prevista la liquidazione di una “indennità per morte” (a condizione che il defunto potesse far valere almeno un anno di contributi nei cinque anni precedenti al decesso); la domanda va presentata entro un anno dalla morte del lavoratore assicurato. In caso di decesso di lavoratori assicurati dopo il 31/12/1995, è prevista invece, al ricorrere di determinate condizioni, la liquidazione di una “indennità una tantum”.
Tra i vari interventi legislativi e pronunciamenti giurisprudenziali che nel corso del tempo hanno interessato questa prestazione, molti hanno riguardato il diritto nei confronti del coniuge.
Qualcuno forse ricorderà, ad esempio, quella norma del 2011 (al tempo indicata giornalisticamente come legge “anti badanti” e successivamente abrogata perché dichiarata incostituzionale) che – nell’intento di ridurre il costo sociale conseguente ai matrimoni tra uomini di età avanzata e donne molto giovani – prevedeva che quando uno dei coniugi avesse almeno 70 anni di età, tra i due ci fosse una differenza di almeno 20 anni e il matrimonio fosse durato meno di 10 anni, l’importo della pensione spettante al coniuge superstite venisse ridotto in misura proporzionale al numero di anni di matrimonio mancanti a 10 (fino ad azzerare completamente l’importo in caso di decessi avvenuti subito dopo il matrimonio).
Il coniuge superstite, quindi, ha sempre diritto alla pensione, unicamente per l’esistenza del rapporto coniugale con il coniuge defunto (pensionato o assicurato), senza che venga richiesta la vivenza a carico del dante causa al momento della morte di quest’ultimo e senza che sia necessario soddisfare alcuna altra condizione (indipendentemente, ad esempio, dal regime di separazione o comunione dei beni).
Il diritto alla percezione della prestazione ai superstiti viene meno, tuttavia, nei casi in cui il coniuge superstite contragga successivamente nuovo matrimonio; in questo caso, cessa il diritto alla pensione ai superstiti e al coniuge che è passato a nuove nozze viene liquidato un assegno una tantum pari a due annualità della pensione in godimento (o della quota di pensione attribuita allo stesso coniuge, in caso di contitolarità con i figli).
Dal 2016 (Legge “Cirinnà”) ha diritto alla pensione anche il superstite di una coppia unita civilmente, mentre il diritto non sorge in caso di semplice convivenza “more uxorio”.
Anche il coniuge separato ha diritto alla pensione ai superstiti, ma nel caso di addebito della separazione, fino ad oggi lo stesso aveva diritto alla prestazione solo se risultava titolare di assegno alimentare; il riconoscimento della pensione ai superstiti in favore del coniuge separato per colpa o con addebito della separazione con sentenza passata in giudicato, veniva subordinato quindi alla sussistenza del diritto agli alimenti a carico del coniuge deceduto. Dal 2022, tuttavia, l’INPS (recependo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, che afferma il principio secondo cui non sussiste alcuna differenza di trattamento per il coniuge separato in ragione del titolo della separazione) ha stabilito che anche il coniuge separato – anche se con addebito o per colpa senza diritto agli alimenti – è equiparato sotto ogni profilo al coniuge superstite, in favore del quale opera la presunzione della vivenza a carico del dante causa al momento della morte di quest’ultimo, e pertanto ha diritto alla pensione ai superstiti.
Anche il coniuge divorziato è incluso nell’elenco dei beneficiari, ma a condizione che sia titolare di assegno di divorzio, non abbia contratto nuovo matrimonio e purché il dante causa risultasse iscritto all’Ente previdenziale prima dell’emissione della sentenza di divorzio.
Ad oggi, quindi, la pensione ai superstiti viene riconosciuta al coniuge o all’unito civilmente che si trovi in una di queste condizioni:
- coniugato con il dante causa al momento del decesso;
- separato legalmente (con o senza addebito);
- divorziato, titolare di assegno divorzile, che non abbia contratto nuovo matrimonio.
La pensione ai superstiti decorre dal mese successivo al decesso del pensionato/lavoratore ed è concessa a seguito della presentazione di apposita domanda, da inviarsi telematicamente all’INPS.
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