Stefano Pendola. Laureato in filosofia, pensionato Coop, amante della musica e della letteratura. Partecipa al Concorso 50&Più per la seconda volta; nel 2020 ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la prosa. Vive a Firenze.
Si sa che, diversamente dall’uomo, tutte le altre specie animali attraversano le sconfinate vallate dei tempi mantenendo sostanzialmente immutato e identico il loro aspetto esteriore (oltre che quello, naturalmente, interiore!). Non è solo un fatto di immagine, di sembianza, di look; è evidente infatti che nella specie umana l’attuale abbigliamento di un commercialista niente ha a che vedere con quello di un notaro del XIV secolo. È anche un fatto di comportamento, di contegno, di espressione; un tedesco di oggi non mangia certamente nello stesso modo in cui mangiava un sassone del V secolo: se per fantasiosa ipotesi li potessimo osservare mentre mangiano uno accanto all’altro, senza dubbio penseremmo che stanno facendo due cose totalmente diverse. Un cane invece, per esempio (e sempre per esempio immaginiamoci un bel segugio maremmano di antico lignaggio), un cane, che non ha guardaroba, non solo nell’aspetto esteriore è oggi uguale al suo lontanissimo antenato che ammiriamo in un dipinto del Rinascimento, ma anche mangia con il medesimo appetito e con la medesima vigorosa soddisfazione dell’antenato; ma anche, dopo aver mangiato, ci guarda con la medesima gratitudine e con il medesimo attaccamento con cui i suoi simili di secoli e secoli fa guardavano i loro padroni, e si stiracchia nello stesso modo, e va ad accucciarsi nello stesso modo e con la stessa mitezza dello sguardo. Tutto questo lo si potrebbe definire un monomorfismo… “temporale”. Schopenhauer arriva fino a dire che quel gatto che in quel particolare momento gli sta sbertucciando i fogli sullo scrittoio in realtà altri non è che il medesimo gatto Murr delle famose Riflessioni, altri non è che il medesimo gatto che era venerato nell’antico Egitto e alla cui morte – ci racconta Erodoto – tutti in casa si radevano le sopracciglia, alla fin fine altri non è che la stessa… dea Bastet. Io non saprei: non sono abbastanza “filosofo”. Certo è che alcuni giorni fa mi è accaduto un fatto che ha davvero dell’incredibile e che mi ha estremamente sbalordito, ma che mi ha anche molto rassicurato, e consolato. Per undici anni ho avuto un cane, una femmina di Labrador di nome Telma, una creatura dolce e celestiale la cui bontà e docilità, giudicate con metro umano, risultavano addirittura esagerate e, paradossalmente, quasi irragionevoli. Mille e mille episodi a tale proposito potrei narrare, ma non ce n’è bisogno, perché tali racconti sarebbero graditi quasi unicamente da chi ha o ha avuto un cane, e chiunque abbia avuto in dono la compagnia di un cane mi ha già capito. Era di colore giallo, tracagnotta e un po’ sovrappeso (ma quale Labrador non lo è?) Lungo tutta la canna nasale le correva un lieve, curioso, buffo e simpaticissimo “remolino” scuro che era quasi il suo segno morfologico distintivo. Telma mi ha lasciato già da qualche anno e non passa un giorno, forse nemmeno un’ora, in cui io non la ricordi. Talvolta per strada mi capita di vedere un cane della stessa razza e mi par quasi di vedere lei: sculetta sempre lieto, segue fiutando le sue piste ataviche anche se oggi urbane, elegantemente felice e orgoglioso di non poter parlare e quindi di non poter mentire. Mi par quasi di vedere lei. Se posso, mi fermo un momento e l’accarezzo, gli dò un bacio sulla fronte, chiedo come si chiama: Rocky, Mimma, Ragú, Pimpa, Tosca. Mi par quasi di vedere lei. Ma ovviamente non è lei. Se posso, mostro al suo accompagnatore la foto di Telma sul mio telefonino e poi continuo per la mia strada, grato ogni volta dell’incontro. Ma alcuni giorni fa è accaduto il fatto veramente stupefacente! Vedo a una quarantina di metri venirmi incontro sul marciapiede un signore con al guinzaglio una femmina di Labrador, gialla, tarchiatella, un po’ sovrappeso. Anche lei già da quella distanza mi fissa fiutando e sembra quasi nello stesso tempo un po’ rallentare e un po’ allungare il passo. «Ecco un’altra… Telma» mi dico come sempre «mi par quasi di vedere lei». Sconvolgimento di ogni norma e di ogni precedente sperienza: con una stratta si libera dalla tenuta del padrone e corre verso di me. Io capisco subito che è proprio verso di me che corre, resto un po’ sorpreso ma mi chino e l’aspetto. Arriva di galoppo e mi stende a terra (con la mia sciatica!) Mi lecca spasmodicamente, mi gira intorno, i colpi della sua coda sono come martellate di muratore. Quegli occhi! Quello sguardo! E poi – no, santiddio, non può essere! – quella ritrosa scura sul naso… Se fossi in piedi mi si scioglierebbero le ginocchia.
«Ma tu sei… sei… Telma?». Ma non può parlare, e quindi non può mentire… non può nemmeno dire il vero; il suo essere è al di là del vero e del falso. Fingere? Mentire? Simulare? Rivelare? Illudere? Cos’è tutto questo? Cosa sta accadendo? Solamente continua a leccarmi e a guardarmi. Io continuo ad abbracciarla e a baciarla. L’amore si ripresenta, perpetuamente. Intanto è giunto il proprietario; riprende il guinzaglio, mi dà una mano per alzarmi e si scusa per quanto è avvenuto: «Mi dispiace, non aveva mai fatto con nessuno una cosa del genere, è strano». Se ne vanno per la loro strada, lei riprende a fiutare le sue piste ataviche lietamente sculettando e guardando il “suo” padrone con la medesima attenzione con cui fino a pochi anni fa guardava me. Dopo una ventina di passi si gira e mi rivolge un ultimo sguardo. Non ho pensato a chiedere all’uomo il nome di quel cane. Ma va bene così. L’amore si ripresenta, perpetuamente. Oh! Telma…