Stefano Pendola.
Laureato in filosofia, pensionato Coop, amante della musica e della letteratura. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Firenze.
Se ripercorro tutte le circostanze che mi hanno condotto al presente stato di solitudine e di abbandono, non so francamente se ciò sia dipeso più da una cieca fatalità, da una smisurata malvagità di colei che mi ha abbandonato o da una mia colpevole incapacità di farmi amare abbastanza. Forse da tutte queste cose insieme? Forse queste tre cose in sostanza coincidono? Non lo so. So che un tempo eravamo felici insieme. So che quando passeggiavamo insieme tutti ci guardavano con ammirazione e con una di invidia. Quando, abbracciati su un divano, ci guardavamo fissi negli occhi, quando talvolta un suo sospiro si trasformava in un mio sospiro – di malinconia, ma anche di segreta gioia, anche di incondizionata comprensione – credevo (e sembrava che anche lei lo credesse) che quella insuperabile felicità non potesse avere mai fine, perché di fatto non aveva mai avuto nemmeno un inizio, perché era la felicità in assoluto che semplicemente si attuava in noi e attraverso noi. Ci svegliavamo la mattina – dopo una notte dolce e calda – e bastava il primo sguardo per augurarci buongiorno. Il mio carattere mite e privo di pretese – quasi direi privo di vera e propria volontà – sembrava adattarsi perfettamente a lei, donna in alcun modo autoritaria, no di certo, ma in ogni caso di temperamento energico e risoluto, di decisioni ferme e ponderate, che per me erano una grazia del cielo, una sicurezza incrollabile. Per dire tutto in una parola (parola di difficile interpretazione – è vero – ma da tutti considerata in ogni caso sublime e come tale quindi inequivocabile), ci amavamo: io la amavo, la adoravo… era mia, ed io ero suo. Mai e poi mai e poi mai mi sarebbe venuto in mente di cercare altra compagnia, altre persone, altro modo di vivere e di essere felice: in lei e con lei avevo tutto.
Poi le cose principiarono a cambiare. Sempre più spesso cominciarono a venire in casa uomini dai modi forti e anche un po’ aggressivi, e pareva che tali modi le piacessero. Parlavano, ridevano, talora perfino mangiavano insieme. Io non sapevo far altro che ritirarmi nella mia stanza, quasi di non dare troppa importanza a ciò, quasi pensando: idiota! Che quelle visite dopo tutto non potevano avere altro risultato che quello di farle capire ancor di più la mia importanza. Poi cominciò ad… assentarsi. Una sera non tornò a casa: arrivò la mattina dopo e mi riempì di baci. Ed io? Niente. Nessun rimprovero (io biasimare?). Nessun segno di malcontento. Non seppi far altro che manifestare la mia felicità per il suo ritorno. Non seppi far altro che… essere felice per il suo ritorno. Poi le notti in cui non rincasava diventarono sempre più frequenti, e la mattina quasi nemmeno più mi salutava. Poi cominciò a star fuori anche nei fine settimana. La sola cosa che mi diceva prima di uscire il venerdì sera era che mi avrebbe lasciato da mangiare, e quindi non dovevo lamentarmi. Ed io? Che potevo fare? Non sapevo cosa fare, tale era il mio stupore e la mia disperazione. Uno come me non sa nemmeno parlare: non sa far altro che guardare implorando amore. Finalmente un giorno mi disse che con il tipo di vita che ora faceva non poteva avermi più fra i piedi, e allora l’universo crollò. Ora non so far altro che ricordare i baci, le carezze, gli sguardi di una volta. E questi ricordi sono il grande male, ma anche il grande bene, della mia vita nel canile municipale.