Rosalia Pellegrin.
Dopo il diploma di maturità tecnico commerciale ha lavorato come impiegata e poi si è dedicata all’attività commerciale nel settore abbigliamento dove lavora a tutt’oggi. Ama scrivere racconti e l’arte in genere. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Lozzo Atestino (Pd).
L’orto che voglio descrivere in questo racconto è quello della casa dove sono nata.
Il nonno, finita la guerra, tornati i figli dal fronte, aveva riscattati dai frati armeni “quel luogo”, come lo chiamava lui, costituito da un appezzamento di terreno con in mezzo una casetta, un fienile, il pollaio, il porcile e una baracca per gli attrezzi. In quella casa in mezzo alla campagna verde e pulita della Noventa del 1952, dove ora c’è la zona industriale, sono nata io, terza di sei fratelli.
In quella casa ci si arrivava dalla Riviera Berica, per una stradina in terra battuta, polverosa d’estate e fangosa d’inverno. Prima di entrare in cortile c’era l’orto davanti al fienile a sud, riparato dal vento e circondato da una siepe composta da piante con piccoli tronchi che intrecciati l’un l’altro lasciavano spazi stretti che ci passava solo il gatto, che sdraiato al sole scappava via quando noi bambini arrivavamo per giocare a nascondino.
Altri animali abitavano l’orto. C’erano tanti nidi di vespe sotto le tegole della baracca, le lucertole al sole scappavano veloci dentro le crepe dei pilastri, due rospi nel fango attorno al pozzo.
Da un lato del fienile c’era una pianta di fico così maestosa che i si poteva appollaiare sui grossi rami per coglierne i frutti e dall’altro un ciliegio alto dai frutti bianchi. Io e i miei fratelli passavamo dal fico al ciliegio camminando a piedi scalzi sul tetto del fienile per coglierne i frutti. Lo facevamo di nascosto e le tegole scottavano, ma che soddisfazione mangiare quei frutti e lasciarne cadere giù ai più piccoli che aspettavano sotto. Da lassù avevamo l’orto ai nostri piedi, in lontananza la campagna, i filari dei gelsi con le foglie nuove, le prime erano già state tolte per nutrire i bachi da seta, i campi gialli di frumenti, il verde dell’erba medica e i lunghi fossati alberati che dividevano le proprietà.
L’orto era diviso in quattro parti con due viottoli permanenti tra loro che formavano una croce. In autunno papà lo vangava e in primavera la mamma disegnava tanti rettangoli per le varie verdure. Per primo piantava l’aglio, le cipolle, i piselli, eccetera. Siccome il papà seminava interi campi di erba medica a mano, la mamma lo incaricava di seminare anche le verdure dell’orto.
A ridosso del fienile il papà aveva fatto un semenzaio che consisteva in un rettangolo di terra sostenuta da lunghe tavole allineate, lì durante il mese di febbraio ci seminava il tabacco e di notte lo copriva con un telo. Le sementi venivano pesate e consegnate dal consorzio perché dovevano bastare per un campo di terra. A maggio man mano che le piantine erano pronte venivano trapiantate dalla mamma e dalla zia Ida in pieno campo e noi bambini prendevamo l’acqua del fosso con delle latte trasformate in piccoli secchi per innaffiarle, poi il responsabile del monopolio veniva ogni anno a contarle, dovevano essere dodicimila. In un angolo di quel semenzaio la mamma seminava i pomodori che poi trapiantava nella “comessa”, l’aiuola più grande dell’orto, con il papà, che metteva i pali di sostegno.
La mamma ne piantava davvero tanti perché dovevano bastare ogni sera d’estate a riempire la grande zuppiera bianca di terracotta con i bordi ondulati. Ma non tutti i pomodori servivano per l’insalata, la maggior parte diventava conserva. Era un gran lavoro, bollire i pomodori, passarli alla macchinetta, pesare il passato, aggiungere come conservante l’acido salicilico che in giusta dose il farmacista ci preparava, riempire le bottiglie, un filo d’olio e chiuderle con un tutolo (“un casteon”) avvolto nella carta oleata. Ogni giorno si passava dall’orto per portare quello che era maturo in cucina. Le prime patate che delizia! Piccoline e dolci. L’insalata novella che tagliavamo con le forbici, i ravanelli rossi buonissimi! I piselli che noi bambini dovevamo sgranare e le melanzane lunghe violacee. I peperoni lombardi che mangiavamo in insalata, ma che principalmente mettevamo sotto aceto nelle “ballerine”, grandi vasi di vetro. I fagioli si mettevano a dimora nel campo di granoturco tra una pianta e l’altra, sette o otto fagioli per buchetta. Si strappavano le piante prima della raccolta del mais e si portavano in cortile. La nonna seduta all’ombra del fico separava i baccelli dalle piante e noi bambini la aiutavamo. Li portavamo sull’aia al sole per batterli con un bastone in modo che si aprissero liberando i fagioli che venivano ventilati, puliti e riposti in sacchetti nel granaio come scorta per l’inverno. Polenta e fasoi in pocio!
Mentre i fagioli erano al sole noi bambini ci giocavamo e io non so se per sbaglio o per scherzo me ne sono infilata uno nel naso, che poi non sono più riuscita a togliere da sola. Subito per la paura non dissi nulla, ma dopo qualche giorno il fagiolo si ingrandì e il mio naso con lui. A quel punto mia sorella spifferò tutto. La disperazione della mamma ancora me la ricordo, si tolse una forcina dalle trecce arrotolate attorno al viso e provò a togliermelo senza riuscirci, perché non stato ferma e mi faceva male. Capitò lì per caso mio zio Pietro, mi misero seduta sul tavolo in cucina in due o tre mi tennero ferma e il fagiolo uscì. Aveva fatto il germoglio!
Anche le zucche si seminavano nei campi di granoturco perché la zucca ha bisogno di larghi spazi. Tolta la pannocchia del mais e fatte fascine delle piante secce si passava con la carriola a raccogliere le zucche mature. Il più grande di noi guidava la carriola e i più piccoli prendevano le zucche qua e là. Una volta raccolte si portavano al riparo sotto il portico e venivano scelte le più belle e le più gialle per la cucina, mentre le altre si bollivano ed assieme alla crusca diventavano il pasto per i maiali.
Là nell’orto c’era il pozzo con un’appendice di giardino, qualche ciuffo di violette, qualche primula, una pianta dai fiori gialli che ora sappiamo essere topinambur e una lunga fila di iris viola che vivevano sul ciglio di un rigagnolo che partiva dal pozzo e si perdeva lungo la stradina. In quel rigagnolo ci finiva l’acqua quando il secchio era troppo pieno o quando si lavava l’insalata o quando si risciacquava il bucato. Nel giardino troneggiavano dalie di tanti colori che bevevano un secchio d’acqua ogni sera. I loro petali servivano per la processione del Corpus Domini che noi bambini vestiti da prima comunione spargevamo lungo il cammino con un cestino foderato di carta velina bianca.
A turno al tramonto calavamo il secchio nel pozzo grazie alla carrucola e si riempiva l’albio, un abbeveratoio in trachite lungo circa un metro e mezzo e profondo sessanta centimetri e con i secchi si abbeverava l’orto.
Quando arrivava il papà dai campi lo si riempiva nuovamente e lui liberava le mucche dalla stalla che venivano a bere una dietro all’altra, poi si giravano e rientravano in stalla e papà rimetteva loro la catena.
L’orto finiva con cinque filati di vite di uva fragola e uva bacò, quest’ultima era la prima a maturare con i suoi grappoli lunghi e i suoi acini piccoli e dolcissimi, ma il vino che se ne ricavava era leggero e non durava, quindi bisognava berlo per primo. In mezzo alle viti c’era un’altissima pianta di noci che quando c’erano i temporali ci faceva paura, il vento sibilava tra i suoi rami, ma non li piegava tanto erano forti. In autunno lasciava cadere tante noci che la mamma raccoglieva ed essiccava sui davanzali delle finestre, le puliva dal mallo nero, le metteva in sacchetti di iuta che appendeva alle travi della cucina, poi d’inverno erano il nostro dessert assieme al pane biscotto.
Adesso che sono quasi vecchia questi ricordi mi passano davanti dolci, belli e sereni: le fredde sere d’inverno di là nella stalla stavamo al caldo, le mucche sdraiate ruminavano e i vitellini dormivano. La mamma rammendava qualcosa, mentre le sorelle più grandi si facevano le bambole con degli straccetti vecchi, con un ciuffetto di peli della cosa della mucca facevano i capelli e con un carboncino disegnavano il viso. Papà metteva un manico nuovo alla zappa o al badile, faceva un rastrello o qualche sgabello. Noi più piccoli stavamo a guardare o stuzzicavamo i vitellini che infastiditi si alzavano, qualcuno più coraggioso saliva in groppa alle mucche. La mucca più buona era la Gina, che si lasciava fare di tutto, mentre Contessa, una pezzata nera, era più fastidiosa, scuoteva con forza la testa e le sue corna erano pericolose.
Se non eravamo in stalla stavamo in cucina davanti al camino, la mamma con i ferri lavorava a maglia mentre papà ascoltava qualche nostra lettura, qualche poesia da ripassare, le numerazioni o le tabelline da imparare o sa insegnare. Qualche volta il papà ci raccontava del suo militare a Tarvisio, poi dell’8 settembre, dei tedeschi, del campo di prigionia e dei bombardamenti, della fame e della fuga di notte nei campi a rubare le patate o i crauti e infine della lunga marcia a piedi per tornare a casa. Il fuoco si spegneva, le braci diventavano cenere e uno alla volta con il lume in mano si andava di sopra a dormire.
Le calde sere d’estate seduti per terra sui mattoni tiepidi del cortile davanti l’uscio di casa io e i miei fratelli contavamo le stelle man mano che spuntavano con il gatto sdraiato un po’ più in là, la mamma in casa risistemava la cucina con l’aiuto di mia sorella più grande, il papà fumava una mezza alfa seduto a capotavola con le maniche della camicia arrotolate, il cappello di paglia appoggiato sulla sedia, i piedi stanchi e nudi lavati al pozzo riposavano in un paio di zoccoli. La luna, poi, ci mandava tutti a dormire.