In periodi di crisi e di incertezza, l’istinto ci spinge a rifugiarci nel presente, a occuparci delle questioni urgenti e a orientare le scelte in una prospettiva a breve termine. Un gruppo di filosofi dell’Università di Oxford è invece interessato al futuro a lunghissimo termine, a distanze siderali da noi.
Immaginate di poter osservare, planando dall’alto, tutta l’esistenza umana dalle origini fino al suo declino. L’Homo sapiens esiste da poche centinaia di migliaia di anni. Se gli esseri umani vivessero anche solo un milione di anni – una frazione minuscola rispetto all’età del nostro pianeta – saremmo ancora nel pieno della giovinezza della nostra specie. Il modo in cui agiamo oggi potrebbe determinare la qualità della vita di decine, se non centinaia, di miliardi di persone dopo di noi.
L’idea di considerare gli effetti che le nostre scelte avranno sulle generazioni future non è nuova. Si dice che gli Iroquois, una confederazione di tribù native americane governata da processi democratici e deliberativi, avesse nella sua costituzione un principio detto delle sette generazioni, che ha ispirato nel tempo movimenti diversi di attivisti: ogni decisione importante va valutata in termini delle sue conseguenze sulle prossime sette generazioni, ossia circa 175 anni in avanti, considerando una generazione di 25 anni.
Ma i fautori del lungoterminismo (longtermism in inglese) credono che la nostra responsabilità si estenda ben oltre le prossime generazioni, fino a un futuro remoto a centinaia di migliaia di anni di distanza. Ritengono che avere un impatto positivo su queste vite lontanissime debba essere una delle priorità centrali del nostro tempo.
Con centri di ricerca in alcune delle università più importanti del mondo e investimenti da parte di miliardari come Elon Musk, il lungoterminismo è una delle correnti filosofiche più influenti del nostro tempo, anche se quasi nessuno ne ha mai sentito parlare. Offre in parte una prospettiva ottimista sulla nostra capacità di influenzare gli eventi – un antidoto alla sensazione di impotenza di fronte a una realtà che ci appare fuori controllo – e in parte un ritratto spaventoso del mondo in cui viviamo, fatto di calcoli (piuttosto speculativi) sul rischio della nostra estinzione. Un mondo dal volto quasi irriconoscibile, anche per chi è genuinamente preoccupato per le sorti del pianeta.
Uno dei principali esponenti del lungoterminismo, il filosofo australiano Toby Ord, stima intorno al quindici per cento la probabilità che, nel prossimo secolo, un evento apocalittico metta a rischio la nostra esistenza sulla Terra. Le opzioni sono numerose: dalle catastrofi naturali all’impatto di enormi asteroidi, come quello che uccise tre quarti delle specie animali, inclusi i dinosauri, milioni di anni fa. Ma la maggior parte dei pericoli identificati da Ord sarebbe il risultato dell’azione dell’uomo: l’avvento di una super-intelligenza artificiale ostile e capace di rivoltarsi contro i suoi creatori, lo sviluppo di armi biologiche, il collasso climatico o l’annientamento nucleare.
Secondo i lungoterministi, siamo a un nodo fondamentale nella storia della nostra specie proprio a causa del potenziale distruttivo che è nelle nostre mani. Prendere le giuste decisioni oggi potrebbe non solo evitare catastrofi e sofferenza, ma anche garantire lo sviluppo di società sempre più prospere e felici. In effetti, se è vero che da millenni temiamo periodicamente che un’apocalisse ci spazzi tutti via, prima d’ora abbiamo sempre attribuito le nostre paure alla natura o a Dio, forze portentose che agiscono in modi misteriosi, imperscrutabili. La modernizzazione e l’industrializzazione hanno portato con sé un peculiare effetto collaterale. Il progresso, che ha permesso di migliorare considerevolmente la nostra qualità della vita, ha causato anche la proliferazione di nuove e sempre più numerose minacce.
Cosa fare di questa prospettiva? Presa alla lettera, la responsabilità che i lungoterministi assegnano a tutti noi è allo stesso tempo troppo onerosa e troppo vaga. Non abbiamo modo di prevedere, oltre certi limiti, che conseguenze avranno le nostre azioni tra centinaia di migliaia di anni, né possiamo portare sulle nostre spalle il peso di miliardi di esistenze non ancora vissute. Rischia di essere una visione paradossalmente miope, tanto è immersa e plasmata dalle angosce che scuotono il presente: guerre, pandemie, l’avvento dell’intelligenza artificiale.
Ma, facendo a meno delle sue connotazioni apocalittiche, può diventare anche una prospettiva liberatoria, un esercizio radicale di immaginazione. Proiettarci nel futuro lontano ci ricorda che anche se la realtà sembra stagnante, una condizione permanente, tutto è destinato a cambiare. Osservarci a distanza ci consente di percepire che siamo radicati a tutti quelli che sono venuti prima di noi e connessi a tutti quelli che verranno. Pur essendo un minuscolo anello in una catena lunghissima, ciò che facciamo conta. Siamo più e meno importanti di quel che pensiamo: è in questo spazio intermedio che prosperano le possibilità.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è L’orizzonte della notte.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
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