Le testimonianze di due direttori, di diverse realtà culturali, che spiegano le principali criticità di gestione di un museo e gli sforzi fatti per rendere migliore possibile il servizio al pubblico.
Abbiamo chiesto il parere sulla realtà museale a due direttori, differenti per storia personale e per tipologia della struttura che sono chiamati a guidare: James Bradburne, il museologo e manager culturale anglo-canadese che dal 2015 tiene le redini di una delle maggiori pinacoteche italiane, la milanese Brera, e la storica e critica dell’arte Chiara Gatti, da febbraio alla direzione del piccolo e fattivo MAN di Nuoro.
Conservazione ed esposizione, tutela e ricerca, piacere ed educazione: quale di queste attività è più difficile mettere in pratica nel suo museo?
James Bradburne: «Brera è un grande museo nazionale, con personale dalle molteplici competenze, per cui nessuna funzione museale è più difficile di un’altra: ognuna ha le sue sfide, ognuna ha le sue esigenze, ognuna ha le sue difficoltà. Abbiamo due laboratori di restauro aperti; ospitiamo regolarmente dialoghi che invitano i nostri utenti a tornare per vedere la collezione sotto una nuova luce; facciamo ricerca e pubblichiamo regolarmente, e abbiamo uno straordinario servizio educativo con un approccio inclusivo all’etichettatura che comprende etichette tattili e olfattive, nonché programmi che vanno dai bambini più piccoli a pubblici specializzati come pensionati, malati di Alzheimer, malati di Parkinson, ipovedenti ecc.».
Chiara Gatti: «Devo dire, senza presunzione, che non abbiamo difficoltà in nessuna di queste attività. Vorremmo lavorare più che altro sulla conservazione, anche perché abbiamo alcune importanti opere che stanno arrivando in collezione, un Sironi del 1905, un Nivola gigantesco, che hanno necessità di essere protette nei depositi. Dobbiamo fare molta comunicazione, valorizzazione, diffusione, inclusione, però dobbiamo – come missione numero uno – tutelare e custodire le opere. Servono depositi all’avanguardia, noi ci stiamo lavorando e speriamo di vincere il bando del ministero per il nuovo PNRR: ci consentirebbe di sistemare degli spazi e di fare nuove acquisizioni, perché i musei dovrebbero continuare a comperare, pur avendo budget ridotti all’osso».
Le esigenze delle opere e quelle del pubblico sono sempre coincidenti? Quali dovranno prevalere nel prossimo futuro?
James Bradburne: «La necessità di conservare e proteggere le opere d’arte è sempre fondamentale, ma non ho mai incontrato una situazione in cui la necessità di protezione fosse un impedimento per rendere l’opera disponibile al pubblico in modo significativo. Se si pensa in modo creativo, l’oggetto e il pubblico non devono mai essere in conflitto».
Chiara Gatti: «Spesso sono in contrapposizione, perché tante opere che i visitatori vorrebbero guardare da un palmo di naso, piuttosto che toccare o interagire con esse, non possono essere messe a disposizione così. Succede per tutti i periodi della storia dell’arte, ma soprattutto per il contemporaneo. In questi giorni abbiamo in mostra opere girevoli, che dovrebbero essere tastate, attraversate, ma spesso il visitatore non ha contezza che comunque sono opere d’arte e, invece di sfiorarle delicatamente, esagera o magari con i tacchi sfrega pavimenti che sono frutto di un “wall painting”. Ci vuole un’educazione del pubblico a confrontarsi con opere con le quali, sì, si può interagire, ma che comunque richiedono sempre un certo rispetto».
Quali le maggiori difficoltà che incontra nell’operare verso un museo migliore?
James Bradburne: «Il più grande ostacolo che impedisce ai musei statali italiani di servire efficacemente il pubblico è la mancanza di autonomia nelle risorse umane. Senza la capacità di selezionare la persona giusta per il lavoro giusto, e di motivarla continuamente, i musei italiani non saranno mai in grado di servire pienamente il pubblico. Il museo ha i soldi – o è in grado di trovarli – ha personale di talento; il problema è che, finché tutte le assunzioni vengono fatte a livello centrale, il museo non ha la possibilità di utilizzare autonomamente il proprio budget per assegnare alle persone giuste il lavoro che sanno fare meglio».
Chiara Gatti: «Finanziarie e logistiche. Un museo migliore implica anche l’adeguamento di sistemi ambientali – temperatura, umidità, luci, sicurezza… – con apparecchiature sempre più sofisticate. Sono spese che vanno messe a budget. Adesso la nostra difficoltà maggiore è il costo dell’elettricità: la bolletta bimestrale di oggi corrisponde a quella annua di ieri».
Il museo di domani dovrà essere una sorta di università popolare per i cittadini? Non farà questa scelta perdere attrattiva al pubblico dei turisti?
James Bradburne: «Il museo non è, non può e non deve essere una scuola: è un’istituzione di apprendimento informale, come una biblioteca o un parco, in cui l’utente ha il controllo della propria agenda, in cui l’apprendimento può essere o meno presente. D’altra parte, il turismo non è un obiettivo legittimo per un museo. Il turismo è la conseguenza della creazione di un museo amato dai suoi veri “stakeholder”, la comunità in cui si trova, non la sua ragione d’essere».
Chiara Gatti: «Bisogna cercare di far coincidere le esigenze di tutti. Un museo deve sicuramente aprirsi alle persone con una funzione educativa, e cercare di parlare a tutti i tipi di pubblico, proponendo diversi livelli di lettura delle opere. Ogni collezione, ogni mostra, ogni apparato didattico dovrebbe essere modulato per un ventaglio di esigenze differenti, da quelle dei più piccoli alle difficoltà di un pubblico più anziano e di chi è portatore di disabilità. Il pubblico va educato, senza abbassare la guardia, tenendo sempre un alto livello di qualità e un alto livello di divulgazione.
© Riproduzione riservata