Chi ha il Parkinson non è maggiormente a rischio di ammalarsi di Covid. E, comunque, in caso di contagio non sviluppa sintomi peggiori rispetto al resto della popolazione. Anzi, sorprendentemente, il quadro clinico è meno grave e il tasso di ricoveri e di mortalità è leggermente inferiore alla media.
È quanto dimostra lo studio condotto presso il Centro Parkinson dell’ASST Pini-CTO di Milano, con il contributo della Fondazione Grigioni per il Morbo di Parkinson. Si tratta della più ampia indagine al mondo sul rapporto tra malattia di Parkinson e nuovo Coronavirus. Ma chiariamolo subito: non invita chi è affetto dalla malattia neurodegenerativa ad abbassare la guardia, ma solamente a non preoccuparsi oltre il dovuto.
I dati sulla malattia degenerativa e i rischi della Sars-Cov2
I ricercatori hanno raccolto i dati di 1.486 persone con una diagnosi di Parkinson in cura presso il Centro Parkinson dell’ASST Gaetano Pini-CTO di Milano. Li hanno quindi messi a confronto con quelli di 1.207 famigliari senza Parkinson utilizzati come gruppo di controllo. Per comprendere se la malattia neurodegenerativa potesse rappresentare un fattore di rischio per l’infezione da Sars-Cov2, gli scienziati hanno calcolato i casi di Covid, il numero dei decessi dovuti all’infezione e l’andamento dei quadri clinici in entrambi i gruppi.
«Siamo riusciti a portare a termine un lavoro notevole, il più significativo finora condotto al mondo per il numero di pazienti parkinsoniani coinvolti e su una popolazione ben specifica e determinata sia geograficamente che temporalmente, all’interno di una delle regioni maggiormente colpite dal Covid-19 a livello mondiale», ha dichiarato Gianni Pezzoli, presidente della Fondazione Grigioni per il Morbo di Parkinson. «Con lo studio – ha proseguito – abbiamo provato a rispondere ai principali dubbi sui rischi, sintomi e possibili sviluppi fatali dell’infezione Sars CoV-2 nei pazienti affetti da malattia di Parkinson e ciò che è emerso è che questi pazienti non sono maggiormente esposti allo sviluppo di Covid, né hanno sviluppo di sintomi o forme più severe dell’infezione».
I risultati: il tasso di mortalità tra i pazienti con Parkinson è leggermente inferiore
Ecco allora cosa è emerso dall’analisi. Nel gruppo dei pazienti parkinsoniani sono stati accertati 105 casi di Covid, nel gruppo di riferimento ci sono stati 92 casi. Una differenza così piccola, direbbero gli statistici, non è significativa. Si può sostenere cioè che le persone con Parkinson hanno le stesse probabilità di ammalarsi di Covid di tutti gli altri.
Passiamo al numero dei decessi. Il tasso di mortalità tra i pazienti con Parkinson è addirittura leggermente inferiore. È pari al 5,7% in confronto al 7,6% del gruppo di controllo. Anche i sintomi dell’infezione virale nei pazienti con Parkinson sembrano più lievi rispetto a quelli della popolazione generale.
Un altro dato che colpisce è il minor numero dei ricoveri nei pazienti con malattia di Parkinson colpiti da Covid. Un fenomeno presumibilmente dovuto alla prassi consolidata di gestire i pazienti parkinsoniani a casa.
Tra i fattori di rischio, anche la carenza di Vitamina D?
Riassumendo: i pazienti con Parkinson non rischiano più degli altri di ammalarsi di Covid e in caso di contagio possono addirittura avere esiti gravi. Ci sono però anche per loro dei fattori di rischio che aumentano le probabilità di ammalarsi e di sviluppare un quadro clinico più critico.
Oltre a obesità e patologie respiratorie croniche preesistenti, condizioni considerate rischiose in generale, nelle persone con Parkinson sono emersi due specifici fattori di rischio: l’età più giovanile e la mancanza di supplementi a base di vitamina D.
L’aumento del rischio per i più giovani potrebbe però avere un’altra spiegazione. Potrebbe dipendere dal fatto che per i pazienti più giovani non si adottano le stesse misure preventive riservate ai pazienti senior, capaci di ridurre le probabilità di contagio.
«Il dato forse più interessante ottenuto dallo studio riguarda la carenza di vitamina D3 e la mancata supplementazione di supporto come elemento di rischio. Quest’ultimo risultato rappresenta sicuramente uno spunto che merita ulteriori indagini per approfondire il significato e i potenziali effetti di bassi livelli di vitamina D3 e per prendere in considerazione l’utilizzo di una supplementazione che, solo in linea teorica fino a questo momento, potrebbe risultare come un fattore protettivo», ha dichiarato Gianni Pezzoli, presidente Fondazione Grigioni per il Morbo di Parkinson.
I pazienti parkinsoniani affetti da Covid-19 avevano infatti una supplementazione inferiore rispetto ai pazienti che non avevano contratto l’infezione.
I pazienti con Parkinson sembrano avere sintomi meno gravi
Dall’indagine è emerso anche un altro elemento. In media, i pazienti con Parkinson che si ammalano di Covid hanno sintomi meno gravi rispetto a quelli della popolazione generale. Potrebbe dipendere proprio dal fatto che le terapie per la malattia neurodegenerativa nella maggior parte dei casi prevedono il ricorso a integratori di vitamina D.
La vitamina D è nota per le sue proprietà antinfiammatorie che esercita attraverso una serie di meccanismi, tra i quali l’abbassamento del livello delle citochine, cellule infiammatorie che si innalzano notevolmente nel caso di Covid.
«Il ruolo della vitamina D come immunomodulatore è ben noto da anni, come emerso, ad esempio, nei pazienti con sclerosi multipla. Il suo ruolo protettivo rispetto al Covid-19 è stato ultimamente ipotizzato sulla base di dati epidemiologici quali il maggior contagio in regioni del mondo con scarsa esposizione alla luce solare (necessaria per la produzione endogena della vitamina). Il nostro dato ottenuto nei pazienti lombardi è stato recentemente confermato da studi che hanno misurato i livelli plasmatici di vitamina D in pazienti affetti da Covid-19 ma non da Parkinson. Benché promettenti, i risultati della nostra ricerca attendono di essere confermati da altri studi che tengano in conto di fattori confondenti quali l’esposizione alla luce solare e le abitudini alimentari», ha affermato Alfonso Fasano, neurologo e professore ordinario presso l’Università di Toronto, anch’egli autore dello studio.
Il ruolo della vitamina D nelle infezioni da Covid continua ad essere oggetto di studio e finora non sono stati raggiunti risultati definitivi.
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