Dopo anni di cabaret, Paolo Rossi ha debuttato a teatro nel 1978 per la regia di Dario Fo, ha lavorato con il Teatro dell’Elfo e poi con diverse compagnie su sarcastici recital legati all’attualità e a testi classici, ha realizzato spettacoli Tv (a cominciare da Su la testa! del 1992) e recitato in numerosi film (con Salvatores, Vanzina, Brizzi). Ha partecipato a vari Festival di Sanremo, scritto canzoni e numerosi spettacoli teatrali. Meglio dal vivo che dal morto è il suo ultimo libro, a metà tra autobiografia e raccolta di storie.
William Shakespeare è il personaggio di riferimento con cui dialoga per tutto il libro. Perché non ha scelto un comico?
Essenzialmente perché sto lavorando ormai da due anni a una rappresentazione shakespeariana, e già nella mia precedente storia teatrale ho fatto tre Shakespeare, a cominciare da La commedia degli errori, che non andò neppure in scena. Ero ancora un ragazzino. Poi ho fatto La tempesta con Carlo Cecchi e una versione particolare, interattiva, di Giulietta e Romeo. Dividevo la sala tra Montecchi e Capuleti e con il trucco – qualcuno ci cascò anche – secondo cui non erano arrivati gli attori, distribuivamo le parti al pubblico stesso. Rimase in tour per tre anni, uno dei miei spettacoli più fortunati. In realtà, ovviamente, gli attori erano in platea, io facevo il regista, un altro il tecnico delle luci, un altro il suggeritore e il pubblico recitava secondo la nostra direzione. Shakespeare, per noi che pratichiamo il teatro, è come Dio. Ed è anche il dio dei ladri, perché, per noi comici e saltimbanchi, o come volete chiamarci, il furto è una miniera incredibile. C’è una differenza fondamentale, come mi disse Dario Fo: «Rubare è da geni, copiare è da idioti». Una frase che aveva sottratto a Pablo Picasso, il quale probabilmente a sua volta l’aveva presa da qualcun altro. Per un attore che viaggia molto borderline tra il comico e il serio, come faccio io, il furto è una miniera.
Il libro si presenta come un’autobiografia, però poi spiazza continuamente il lettore tra verità e finzione…
Non mi interessava il risultato finale, avevo in mente il percorso e non mi sono preoccupato di dargli una struttura compiuta. Facendo teatro ti accorgi che ogni sera è un’incompiuta, per questo sono arrivato a un metodo che è una continua “messa in prova”. Del resto l’incompiutezza e l’imperfezione sono caratteristiche del teatro popolare, per questo leggere un testo teatrale ti annoia dopo cinque pagine. Leggere La tempesta è piuttosto noioso, mentre sul palco ne ammiri la grandezza: passa da una scena didascalica a una d’azione, a un’altra comica e così via. Nello stesso tempo ti lascia pieno di dubbi, come un po’ tutte le opere di Shakespeare. I classici per un comico del mio tipo sono il primo riferimento, anche perché, se rubo da loro, l’autore non può più protestare.
Lei dice che gli attori, in particolare quelli comici, devono vivere in un mondo ribaltato, a rovescio, per poter raccontare quello diritto, quello degli umani con i quali è meglio non mescolarsi…
Sono considerazioni che uso spesso con gli amici, al bar, in privato, facendo un po’ i guasconi. Ma qualcosa di vero in effetti c’è. È che il bohèmien, l’artista, chi fa questo mestiere, non può essere “sindacalizzato” o lavorare perché deve osservare un certo protocollo: un minimo di anarchia deve tenersela dentro. È molto importante, perché certe conquiste civili che hanno ottenuto da poco quelli che io chiamo provocatoriamente “gli umani”, cioè chi non fa il mio mestiere, noi le avevamo già fatte nostre nel ’400, nel ’500. Chi ha inventato la famiglia allargata? Noi. Da noi potevano lavorare quelli che oggi sono considerati “diversi”. E anche le donne, come Isabella Andreini e Madame Béjart, la moglie di Molière che comandava la compagnia, perché era evidente la loro autorevolezza. I problemi, l’alcolismo e quant’altro si gestivano in compagnia. Poi, nel secondo dopoguerra, quando è arrivato lo Stato, con le sovvenzioni, abbiamo creduto tutti di essere a posto. Io ero contento, mi vedevo come un impiegato statale della DDR e potevo dire a mia madre, che era molto preoccupata della mia scelta lavorativa: «Vedi c’è lo Stato che pensa a noi». Grandi personaggi, come Dario Fo, Edoardo De Filippo, Carmelo Bene, Franca Valeri, dicevano invece: «Attenzione a che l’intervento non sia troppo pesante, perché rischia di venir meno la qualità». Noi rispondevamo: «Dicono così perché “loro sono loro”», ma alla fine avevano ragione. Oggi il problema qual è? Che noi siamo costretti a prendere come riferimento non più il pubblico, la gente, ma i protocolli. Vengono scelti gli spettacoli e il pubblico è diventato secondario. Nei luoghi di potere ci sono un sacco di persone che, pur dicendo di amarlo, odiano il teatro, che quindi diventa il ghetto degli amatori. Durante il lockdown ho fatto tante repliche nei cortili, con gente che non viene mai a teatro. Loro erano incantati, anche se facevamo poco e magari male per difficoltà tecniche, e io ero incantato dal loro stupore, che voglio andare a ricercare. Io sono molto orgoglioso di giocare in serie B, quella del teatro popolare. Anche perché, qualcuno lo deve finalmente dire che, dopo che per quarant’anni la cultura del teatro è stata martoriata in questo Paese, non solo non ci sono campioni degni di giocare in serie A, ma proprio non c’è il campionato di serie A.
Il suo primo spettacolo l’ha fatto in parrocchia…
Sì, però c’è stato subito un problema con la censura. Non l’ho mai detto in nessuna intervista, magari lo scriverò meglio nel prossimo libro. Anche se il parroco e il sagrestano erano contenti, qualche fedele ebbe dei dubbi, perché salivamo sul palco, tutti vestiti da donna, e cantavamo “Noi siam come le lucciole…”. Mi piaceva la canzone, la sentivo cantare da mia nonna e non mi rendevo conto di fare una provocazione. Poi sono finito al Derby… forse una punizione divina, in un locale che non aveva le sovvenzioni statali, ma stava in piedi grazie ad altro…
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