In una stagione decisamente complicata anche per il cinema, torna nelle librerie il dizionario dei film più famoso d’Italia, Il Mereghetti. Uno strumento che accompagna lo spettatore nelle scelta e insegna a guardare ogni opera filmica per quella che è, senza pregiudizi, con attenzione e curiosità
La settima arte, il cinema, rende del tutto veritiera la celebre battuta de La Tempesta di William Shakespeare: «noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita». Già, perché un film è innanzitutto un sogno da vivere a occhi aperti. Ma ci sono anche sogni banali, spiacevoli, persino dannosi. Per capire quanto è bello e coinvolgente sognare davanti allo schermo, è in libreria l’indispensabile Dizionario dei film 2021, Il Mereghetti, giunto alla 13ª edizione e scritto appunto da Paolo Mereghetti (nella foto in basso, a sinistra), critico cinematografico del Corriere della Sera, nonché autore di saggi tradotti in diverse lingue.
«L’idea originale era di offrire allo spettatore italiano uno strumento che lo aiutasse nella selezione dei film che si vedevano in Tv; erano i primi Anni ’90, con l’esplosione delle televisioni private che riempivano i palinsesti con molti film, spesso brutti, spesso sconosciuti. Ho pensato che gli strumenti che c’erano all’estero e che non potevano essere tradotti per le loro specificità nazionali e per i molti film italiani che andavano inseriti, potessero avere una ragione di esistere anche da noi. Ci siamo messi a lavorare e la prima edizione conteneva circa 13mila schede. La speranza che avesse successo e che avremmo continuato c’era, ma dopo 27 anni questa speranza è diventata quasi una condanna: le confesso che mi sono già messo a lavorare per l’edizione del 2023».
Nel tempo il giudizio sui film (espresso in stelle, da una a quattro, con l’aggiunta della pallina per quelli deludenti) in varie occasioni cambia: alcuni ne ottengono uno migliore e altri le piacciono meno. Come mai?
Il nostro rapporto con i film cambia. Sono come il vino, ci sono quelli che invecchiano bene e quelli che invecchiano male. L’ideale sarebbe rivederli tutti ogni volta, ma è impossibile. Mi faccio guidare un po’ dalla casualità: a volte decido con i miei collaboratori che vale la pena rianalizzare la filmografia di un regista (l’abbiamo fatto questa volta per Wajda e la Varda, deceduti da poco e di cui sono stati ripubblicati i film in dvd), a volte ci sono registi che pensiamo di rivedere perché avevano schede un po’ striminzite o perché avevamo dubbi sulla loro opera (ad esempio, è successo stavolta con quattro film di Fellini e con Avati, Bresson, Nuti e altri), a volte esce in dvd o in Tv un film che da tempo non si vedeva e ci sembra giusto riscriverne. Non necessariamente lo facciamo per cambiare le valutazioni, spesso è per approfondire meglio la riflessione sui temi; anche questo è il lavoro del dizionario e mi piace molto, perché mi costringe continuamente a mettere in discussione anche i miei stessi giudizi.
Da cosa è attratto in particolare durante la visione di un film?
Innanzitutto dal modo con cui il regista mette in scena l’idea che mi pare stia alla base di un’opera. Ci sono film nati per far ridere, altri per far riflettere, altri per far piangere, altri ancora per far vedere le meraviglie della tecnica e via dicendo. Il senso di un film è sempre diverso. Fondamentale è capire come quel senso diventi una forma cinematografica e non un elenco di battute, di ambizioni, persino di prediche, come a volte succede. Quando vedo un film per la prima volta cerco di entrare nella testa del regista per capire quello che voleva realizzare e se ci è riuscito. Non sempre succede; ad esempio, molti “cinepanettoni” avrebbero voluto far ridere e invece ripetono stanche formule. Lo stesso fanno moltissimi western di serie B o tanti drammi che preferiscono colpire basso sotto la cintura, senza un senso preciso. I bei film cerco di vederli due, tre volte perché, liberato dal bisogno di capire dove va la trama, verifico se le mie intuizioni sono giuste, se c’è qualcosa che mi è sfuggito. Infine traduco questo lavoro nelle schede, che sono diverse dalle recensioni che scrivo per il Corriere della Sera. Sono due impegni completamente differenti: con le recensioni cerco di prendere il lettore per mano e di accompagnarlo all’interno del film, magari invitandolo ad andarlo a vedere, se per me vale la pena; le schede sono qualcosa di più oggettivo, più riflettute, più sedimentate, chiare ma non generiche, con informazioni fondamentali, musiche, montaggi e premi.
Perché a volte è così differente il modo di “vedere” un film tra critica e pubblico?
Non così spesso come siamo portati a credere. Ogni tanto ci sono differenze fondamentali, ma soltanto perché c’è un pubblico che ha perso il piacere di approfondire e c’è una critica che si è rinchiusa in se stessa. Negli Anni ’60 si andava a vedere sia Accattone di Pasolini che Per un pugno di dollari di Leone: non c’era la differenza tra il film di pubblico e quello di critica. Con gli anni e tutte le crisi culturali e sociali che abbiamo attraversato, gli errori commessi di qua e di là (i critici ne fanno spesso, e non mi riferisco a quelli di giudizio sul film singolo, ma all’impostazione generale del loro discorso) hanno fatto sì che oggi i film si dividano in capolavori o schifezze. Non è vero, ci sono mille vie di mezzo. E ce ne sono moltissimi che, seppure richiedano una visione più impegnativa e più attenta, meritano di essere visti. Le generalizzazioni non sono mai così vere né così assolute.
C’è, secondo lei, un modo “corretto” di porsi, una forma mentis che lo spettatore dovrebbe assumere quando entra in sala o si pone davanti alla Tv a guardare un film? Oppure è giusto che ognuno si lasci andare e si faccia prendere dallo scorrere delle immagini?
Io mi lascio andare, do la mano al regista e mi faccio accompagnare. Certo mi deve portare verso terreni che in qualche modo mi interessano e deve tenermi stretto, per non farmi fare cattivi incontri e non farmi imbattere in qualche inciampo. Però la prima volta che vedo un film do fiducia al regista, anche se sono uno spettatore un po’ più preparato della media e posso cogliere delle furbizie oppure delle genialità che altri non vedono. Alla fine traggo le conclusioni. I film dovrebbero essere visti fino al termine, non sono tanto lunghi, magari facciamo un sonnellino di cinque minuti come i surrealisti. Se poi questo regista, questo genere o questo attore ci sembra abbiano preso in giro la nostra disponibilità, la prossima volta ci andremo con i piedi di piombo. Pensare prima: «Oh mamma, questo film cosa vorrà dire?», ci frena. Picasso sosteneva di essere un genio perché era stato capace di continuare a dipingere come fosse un bambino ed io penso che i film meritino di essere visti come fossimo dei bambini, concedendo la nostra immaginazione. Poi anche i bambini, nel loro piccolo, possono arrabbiarsi.
Un compito della critica è far capire l’importanza nel tempo di molte opere. Un impegno che, a fronte dell’evoluzione del gusto sempre più accelerata dall’incessante trasformazione tecnologico-consumistica, si fa ogni giorno più complesso…
Sono felice di non dover seguire solo l’attualità. Mi piace molto capire perché certi film che rivedo mi danno ancora gioia e piacere. Secondo me è questa la grande forza del cinema: parlare un linguaggio che è stato messo a punto velocemente, negli anni Dieci del ’900. Poi è arrivato il sonoro, poi gli effetti speciali, tutto quello che volete, ma già allora il cinema aveva un modo di narrare attuale. Nelle mie schede cerco di privilegiare le ragioni per cui certi film continuano a essere capaci di parlarci. Guardarli è simile al prendere in mano romanzi come I miserabili oppure David Copperfield (e ne potrei citare altri duemila): sanno ancora dirci qualcosa e non si mollano più!
© Riproduzione riservata