«È vero che è passato poco più di un anno dall’inizio della pandemia, ma sembrano decenni, e oggi ritrovo una sorta di nostalgia del viaggio così come l’avevano i viaggiatori di due secoli fa».
Così il sociologo Paolo De Nardis, docente presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università La Sapienza di Roma, paragona l’attuale voglia di riprendere a viaggiare a quella di un tempo ormai lontano. «Tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, gli intellettuali di famiglia aristocratica europea destinavano ai figli promettenti negli studi il famoso grand tour. E all’epoca l’Italia era una delle mete preferite. Oggi questa parentesi forzatamente domestica ha instillato la scintilla di fame e sete di qualcosa di diverso, che possa rientrare più nel mondo dei sogni che della realtà, dato che la realtà è in qualche modo una sorta di cattività casalinga e soprattutto distanza fisica».
Professor De Nardis, possiamo dunque parlare di una visione di viaggio romantica, oggi?
Chi se lo può permettere. Perché non dimentichiamo che il Covid non ha fatto altro che esasperare le disuguaglianze sociali, ha recuperato una nostalgia romantica del viaggio. Nostalgia che oggi assume i connotati di rigenerazione e possibilità, come un nuovo rito di iniziazione ad una vita adulta. Visto che in questi mesi siamo stati tutti come minori sotto tutela, condizionati da una normativa pedissequa che abbiamo sopportato peggio che in altri Paesi. Pensiamo a Wuhan. Lì il problema è stato risolto più drasticamente e con un forte intervento dello Stato, ma all’interno di un contesto che non aveva la libertà che possiamo avere noi.
Il sogno del viaggio, per chi riesce a realizzarlo come per chi può solo immaginarlo, è voglia di scoprire altro da noi o piuttosto desiderio di fuga?
Ne I fiori del male di Charles Baudelaire c’è una poesia intitolata Invito al viaggio. Lì è presente il sogno del viaggio, seppure in una persona che, come l’autore, non aveva mai viaggiato e che voleva sempre tornare nella sua Parigi, pur detestandola. Si trattava però di un sogno artificiale, di un viaggio dettato da una situazione di obnubilamento della coscienza. Perché Baudelaire faceva uso di sostanze e quindi il suo era il viaggio attraverso la droga. «Là non c’è nulla che non sia beltà, ordine e lusso, calma e voluttà». Questi versi li ripete in ogni strofa quasi in modo ossessivo, in una situazione fortemente condizionata dall’assunzione di sostanze.
Ecco, indubbiamente pensare oggi al viaggio ricorda questa poesia. Il viaggio come evasione, andare a vedere qualcos’altro, non più il viaggio come interesse, indagine. Pensiamo al viaggio per lavoro. Fino a un anno fa si viaggiava per lavoro e poi si trovava il tempo per vedere anche qualcosa di nuovo. Adesso quello che si vede mediamente è il viaggio come fuga, da una situazione che ormai è diventata pesante. Si cerca una meta che sia altra da noi, ma un altro mondo non c’è. Perché purtroppo le isole felici, bonificate, ho paura che resteranno per ora un’utopia, perché il virus non conosce confini. Quindi non esiste l’evasione se non nel sogno proibito.
Quali sono le conseguenze di questa nuova/antica accezione del viaggio?
Prima della pandemia, studiando il viaggio dal punto di vista sociologico, abbiamo individuato quattro fasi fondamentali. La prima è la progettazione, decidere dove andare e cosa vedere, che è già parte del viaggio. Dopo c’è tutta la preparazione concreta che non è solo il bagaglio. Poi il viaggio vero e proprio, ossia la permanenza, che consiste nel trovare un modus vivendi in una quotidianità altra. Esiste poi un altro aspetto fondamentale che di solito non viene mai sottolineato, che è quello dell’ansia del ritorno. A un certo punto si vuole tornare alle proprie cose quotidiane, tanto amate e odiate allo stesso tempo, e quest’ansia è prelude al ritorno stesso.
Di ansia del ritorno parla Cesare Zavattini, sceneggiatore del neorealismo italiano, nel libro Parliamo tanto di me del 1931, nel quale immagina di fare un viaggio nell’aldilà, come una specie di Dante del Novecento in chiave umoristica. Ad un certo punto cita proprio l’ansia del ritorno, la voglia di riprendere ciò che aveva lasciato sulla terra. La propria compagna, il figlio, persino il lavoro impiegatizio. Credo che se oggi il viaggio debba essere rapportato a queste precauzioni, seppure sacrosante, incoraggerà l’attitudine all’ansia del ritorno molto prima e in maniera molto più feroce, già dalla fase di progettazione.
Inoltre, dal punto di vista della psicologia sociale, non possiamo trascurare la possibilità che in situazioni non chiuse ma perimetrate, dove ci presentano i confini in modo concluso e ben delineati all’esterno, non si possano creare situazioni di panico. Insomma: potremmo riprovare le sensazioni che dà il viaggio in una sorta di recinto? Il rischio è quello di fuggire da una “bolla” per ritrovarsi in un’altra, e speriamo di poterlo trascendere presto, con la campagna di vaccinazioni che, ricordiamo, è fondamentale che arrivi ovunque, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, anch’essi mete di viaggio.
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