Ottavia Piccolo, sessant’anni sul palco proponendo spettacoli ad alta intensità morale e forte denuncia sociale
Donna non rieducabile è la pièce che da 15 anni Ottavia Piccolo presenta nei teatri italiani, alternandola alle tournée di nuove rappresentazioni, ultima delle quali è stata – e nella prossima stagione sarà ancora – Cosa nostra spiegata ai bambini. “Non rieducabile”, come la giornalista Anna Politkovskaja raccontata nello spettacolo, è il marchio d’infamia che il regime russo applica agli oppositori incorruttibili. La carriera della Piccolo, iniziata quando aveva 11 anni e proseguita con la guida dei maggiori registi ininterrottamente fino a oggi, dimostra come abbia saputo esprimersi soprattutto a teatro, e anche facendo cinema e televisione, con una coerenza esemplare e un’attenzione sempre maggiore verso le tematiche sociali.
Sessant’anni di carriera: più rimpianti o più rimorsi?
Nessuno dei due. Sono molto soddisfatta di quello che fatto. Qualcosa non mi piaceva, ma ci sta. Sono stata fortunata, ho scelto bene e sono venute le occasioni giuste. Ho fatto molto meno cinema di quello che avrei voluto, ma gli spettacoli che ho fatto sono belli. Davvero, non è il mio modo di vedere la vita guardare all’indietro. Le cose migliori sono quelle che verranno.
Il teatro ha ancora un valore sociale nel mondo dell’intelligenza artificiale e della realtà virtuale?
Penso proprio di sì. Dopo il lockdown, la chiusura nel nostro piccolissimo che ci faceva parlare solo attraverso i metodi di comunicazione digitali, il teatro ha acquistato una nuova forza. Stamattina ho fatto per i ragazzi delle medie e delle superiori lo spettacolo Cosa nostra spiegata ai bambini, che non è per bambini, parla di mafia, di Elda Pucci, sindaca di Palermo per un anno, e di fatti successi 40 anni fa in una forma non semplice da seguire. Per un’ora e mezza di spettacolo e dopo, per un’ora di discussione, non si sono mossi dalla platea. Mi sono eccitata ad ascoltarli fare domande più che pertinenti, attente, che volevano capire, sapere. Dopo questo periodo drammatico di chiusure in tutti i sensi, anche in noi stessi, girando per l’Italia vedo teatri pieni e persone che, se si facesse il dibattito a seguire come negli Anni ’70, si fermerebbero volentieri. Il teatro si può fare solo insieme al pubblico e la gente ne ha voglia. Quindi serve ancora.
Questo è il mese in cui avvennero la strage di Capaci e l’omicidio di Peppino Impastato, però la stagione stragista della mafia è ormai finita, Messina Denaro è in carcere, persino La Piovra è chiusa da vent’anni. Quindi va tutto bene…
“E manco pe’ gnente”. Sappiamo benissimo che la mafia ha cambiato pelle, ma questo lo dicevano già Borsellino, Falcone e tutti quelli che l’hanno combattuta e sono morti. La mafia ha smesso di sparare in modo plateale come succedeva negli Anni ’80 e dopo, però esiste, si è trasformata. Già allora mandava i figli a studiare all’università, perché così tornando sapevano come muovere le mani, investire, manovrare gli appalti e tutto quello che sappiamo. Probabilmente non ci siamo abbastanza attrezzati per capire. Bisogna essere sempre attenti, attivi e pronti a combattere. Speriamo che i giovani capiscano, perché dipende tutto da loro.
I suoi ultimi spettacoli sono legati a forti temi sociali, la mafia, i migranti, i delitti politici in Russia… Perché questa scelta?
Un po’ per caso. Un po’ perché una ventina di anni fa mi sono guardata intorno e ho cominciato a pensare che il teatro che avevo fatto fino a quel momento proponeva argomenti che mi stavano un po’ stretti. Già, se allora mi avessero proposto di fare, che so, Chi ha paura di Virginia Wolf? sulla crisi della coppia, avrei detto: “non me ne importa niente”. Quindi ho cominciato a leggere testi nuovi ed è capitato che ho fatto spettacoli come Rosanero di Roberto Cavosi sulla mafia, poi ho letto Le irregolari di Massimo Carlotto sulle madri di Plaza De Mayo e i desaparecido e ne ho fatto uno spettacolo; e poi Israele e la Palestina, poi Anna Politkovskaja, poi il problema del lavoro, le donne e la perdita dei diritti. Insomma, mi sono guardata intorno e le cose che vedo e che leggo mi piace farle diventare un teatro che vorrei andare a vedere.
Parole mute che parla dell’Alzheimer e dei problemi dell’età avanzata. Per presentarla lei disse: “invecchiare bene è anche una questione di testa”…
Diciamo subito che invecchiare è una gran rottura di scatole. È inutile fingere che tutto vada bene, perché il nostro corpo comincia a chiederci cose che non ci aveva mai chiesto, di metterci tranquilli, di non agitarci, di mangiare meno e camminare di più. La realtà è complessa, però se uno ha interessi, ha da fare, non si annoia, la affronta meglio. E modi per non annoiarsi ce ne sono tanti, a cominciare dal guardarsi intorno e vedere se c’è chi ha bisogno di noi. Penso che il mio mestiere serva a qualcosa e quindi continuo a farlo ma, quando non potrò più perché sarò abbastanza rimbambita da non ricordarmi quello che devo dire, magari potrò aiutare qualcuno che è più in difficoltà di me. In questo senso dico che la testa conta, perché se ci si rinchiude in una stanza a guardare la televisione la testa s’addormenta e ci porta a non fare più nulla.
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