Lorenzo Oggero.
Docente e consulente di managment nell’area delle risorse umane per paziente di medie e grandi dimensioni. Nel tempo libero si dedica alla lettura ed ha pubblicato saggi sul tema della seduzione e dell’amore. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Pisa.
Sappiate custodire l’amore, /con gli anni custodirlo doppiamente. /
L’amore non sono i sospiri sulla panchina/non le passeggiate sotto la luna/
Ci sarà di tutto: piovaschi e spruzzi di neve. /
Tutta una vita si deve trascorrere insieme.
Stepàn Scipacev, Poesia russa del 900
Le note delle Variazioni Goldberg di Bach si diffondono sulla terrazza, i gabbiani volteggiano sfiorando tetti e ringhiere, il sole indugia sui capelli bianchi di lei.
Occhi azzurri, capelli biondo-cenere, una bocca predisposta al sorriso, da dove arriva questa, si era chiesto Aurelio in ammirazione, quando l’aveva incontrata nel corridoio del liceo. Dopo che il preside l’aveva presentata a tutti i colleghi – Federica Del Signore, la nuova supplente di Storia dell’Arte –, che bel nome! aveva commentato tra sé. Da quella stessa mattina aveva iniziato un corteggiamento quasi invisibile, fatto di silenzi e di sorrisi. Non la interrogava con domande dirette sulla sua persona o sul suo tempo libero, solo riguardo a qualche artista o a qualche mostra. Lei si era accorta di desiderare le sue domande, le stava piacendo quel gioco seduttivo così mite e allusivo. Tanto che una volta le era venuto spontaneo chiedergli se fosse interessato alla mostra dell’Espressionismo tedesco, al Palazzo Ducale di Genova, e così erano andati a vederla. Lei ricorda spesso e con commozione, quando, verso la fine del pranzo, lui le aveva detto: questo sciacchetrà, potresti berlo da un’anfora, come una dea greca. La sera stessa, prima dei saluti, era stata lei a prendere l’iniziativa di salutarlo, avvicinando le labbra alle sue.
L’innamoramento aveva sconvolto come un ciclone amico la vita di Aurelio: di carattere schivo, con lei fin dalle prime volte si era aperto come un libro (l’amore vero è un transfert, si era detto: l’aveva letto in un libro di psicologia!). Sentiva di potersi affidare alle sue mani delicate, nessuna reticenza, nessuna bugia (se per caso o per gioco mentiva, lei se ne accorgeva subito!). Un giorno lo aveva sorpreso con una frase di Hillman: le persone sono libri.
Sono seduti sulla terrazza della mansarda di Chiavari, all’ultimo piano di un elegante palazzo del primo dopoguerra, affacciato sulla piazza sottostante. Posizione da cui godono di una magnifica vista: a sinistra, in lontananza, si intravedono le case e le luci silenziose di Sestri Levante, e uno spicchio tremulo di mare antistante; verso nord fanno corona allo sguardo le colline su cui appoggia Leivi e verso ovest si staglia la sagoma del monte di Portofino che declina imponente verso il mare.
– Davvero vuoi che ti parli ancora di Monet?. gli chiede Federica. Bene, inizierò una lezione per il mio allievo prediletto. Monet dipinse oltre trenta tele della Cattedrale di Rouen, ognuna secondo le variazioni della luce e delle tonalità cromatiche nell’arco della giornata. Nei suoi quadri i protagonisti diventano il colore e la luce, capaci di dare un’anima, anzi tante anime, alle pietre della facciata gotica.
Intanto le case che si affacciano sulla piazza sottostante si stanno brinando di un velo che ne addolcisce i contorni, e li ammanta di malinconia. Il sole si appresta con maestosa lentezza a rispettare la sua millenaria abitudine: disegnare un rigoroso arco nel cielo, specchiarsi nel golfo del Tigullio e, pregustando l’imminente, meritato riposo, scomparire dietro il monte di Portofino, tingendone d’oro il caratteristico profilo.
“La vista da quassù”, commenta Federica, “favorisce la calma e il distacco. Noi ci troviamo in alto sotto il cielo, nella posizione di chi sa di poter essere osservato solo dal sole, dalla luna e dalle stelle secondo la rigorosa sequenza del tempo, e dai gabbiani. Questi uccelli vogliono farsi sentire ed emettono gridi rauchi e striduli, soprattutto all’alba e durante le ore del tramonto”.
“Guarda”, aveva proseguito lei additando i gabbiani, “quando volano bassi e si avvicinano è possibile intravederne il becco feroce e cogliere di sfuggita la fissità degli occhi, residui di preistoria”.
Di fronte alla terrazza si erge l’imponente struttura della Curia Vescovile. L’ocra è il colore dominante delle sue pietre sulle quali il sole, nelle giornate in cui la fa da padrone, imprime vivacità e leggerezza. Per tutta la durata del giorno l’ocra continua nella sua incessante metamorfosi ad assumere sfumature diverse: l’oro sembra perdere quello scintillio, splendente di giovinezza, proprio di un monile appena creato e gradualmente prendere su di sé una patina più vissuta, simile a quella di un gioiello di antica fattura.
È arrivata L’ora di Monet. Così amano chiamare, nella loro mitologia privata, il breve arco di tempo durante il quale si compie la metamorfosi della luce, così cara al pittore.
“Questa è davvero una sequenza di momenti unici, come quelli fissati nelle numerose tele della cattedrale. Lo sai che quando cambiava la luce Monet cambiava la tela? Il sottotitolo della serie La Cattedrale di Rouen è Armonia in blu e oro”.
“Sì, certo, i tuoi colori”.
“Scusa, che cosa stiamo ascoltando?”, chiede lei, improvvisamente.
Per un lungo attimo Aurelio si immobilizza, si riprende subito e le sorride: – Sono le Variazioni Goldberg suonate da Keith Jarrett.
Si alza, si avvicina alla ringhiera e rivolge lo sguardo lontano dandole le spalle. Una commozione improvvisa, che cerca di nascondere. Non riesco ad abituarmi a questi momenti, si dice, mi prendono a tradimento, sto male ogni volta per la perdita di un suo ricordo, ho paura che tutta la sua memoria possa diventare preda di una mercuriale evanescenza. Pensare che pochi giorni fa stavo ascoltando Changeless, e lei pronta: questo è Keith Jarrett, vero?
“Ti piacerebbe andare a Rouen? Non credi che sarebbe bellissimo immergerci nella Culla dell’Impressionismo?”.
“Certo che ci andremo”, le risponde Aurelio accarezzandole i capelli. “Penso che tu saresti perfetta su una tela di Monet”.
“Grazie. Qualche donna l’ha dipinta, Donne in giardino e anche, famosissimo, La passeggiata, una donna leggiadra, vestita di bianco, con un ombrellino verde. Sai, io penso che un giorno questa terrazza comincerà a volare, sorvoleremo terre sconfinate e i paesaggi di Monet”.
“Ti rivelo un segreto”, sussurra Aurelio, “la nostra terrazza sta già volando”.
“Certo, sta volando magnificamente. Scusa”, chiede lei con una lieve smorfia, “come si chiamano i suoi fiori preferiti?”.
“Nymphéas, Federica, sono le Nymphéas”.
Ci sono momenti nella vita in cui ci illudiamo di essere potenti, quasi onnipotenti, il mondo gira su un asse perfetto e noi ci sentiamo gli artefici della felicità. Una notizia impossibile, un giorno arriva una notizia impossibile che ci schianta e ci sbatte in faccia la nostra impotenza. Ero annichilito mentre ascoltavo la diagnosi, ero anche infastidito.
Il medico ha detto: “È probabile che sia un principio di Alzheimer”.
“Alzheimer?”.
“Oh, solo un principio”, ha ribadito, come a minimizzare la gravità della notizia. “È possibile si tratti di cambiamenti dovuti all’età, sono i primi segnali”.
La malattia è uno schiaffo improvviso, il dolore è un lungo viaggio dell’anima che trasforma le illusioni, spazza via le certezze, è la scoperta che il re è nudo, ti obbliga ad accettare il fascino maledetto della mancanza e a rifondare da capo il tuo piccolo universo. Da quel giorno una specie di idée fixe – un misto di panico, smarrimento, dolore, terrore – si è installata nella mia mente, è impossibile sfuggirle.
Siamo qui, aveva pensato Aurelio, stiamo procedendo così bene nelle nostre esistenze e il medico mi dice che ha l’Alzheimer?
Il medico me l’ha detto alle sei di pomeriggio, so di aver guardato l’orologio: le sei precise, non lo dimenticherò mai. Non volevo che si fosse ammalata, proprio lei, ancora così bella, ancora così amabile. Con quel viso armonico che fin dal primo giorno, indimenticabile, mi aveva catturato per la bontà non meno che per la bellezza.
Aurelio, come stai? mi chiede spesso Federica, me lo chiede con dolcezza, nascondendo la preoccupazione, come se fossi io l’ammalato. Bisogna giocare il tempo, giocare il tempo, ripete spesso, giocare il tempo…
Lei continua a sorprenderlo con riflessioni di scintillante lucidità: – Inutile combattere il krοnοs inesorabile. L’unica possibilità che abbiamo è abitare il kairós, il tempo soggettivo, intimo, dell’occasione, dell’opportunità, che ci fa sentire in sintonia col mondo, il tempo dell’orologio individuale.
“Vivere al meglio nella dimensione del kairós”, prosegue Federica rivolgendosi a me e a se stessa, “trasformare le nostre vite in una continua ricerca di occasioni, spiragli favorevoli”.
Questo mi sta dicendo Federica. “Possiamo anche inventare”, prosegue, “tutti gli uomini romanzano. Non preoccuparti se non ricorderò qualcosa, se vedrai i vuoti incolmabili della mia memoria erosa, tu sai che arriveranno altri momenti in cui i ricordi saranno presenti e benevoli, soprattutto quelli più lontani, i ricordi dalle ombre lunghe”.
Giocare il tempo: le sue parole hanno fatto sì che tutto me stesso – cervello, anima, cuore – entrasse in gioco. È iniziata la mia personale, a volte surrettizia, battaglia contro il krοnοs. E la grande alleanza con il kairós.
Quando lei mi parla in modo fedele e preciso del nostro primo incontro o quando commenta Monet, ecco, queste diventano occasioni imperdibili, sono i momenti di una felicità minuta, non meno intensi e pieni di quelli che ci hanno accompagnato nel corso della nostra vita insieme, per il tempo del nostro bellissimo, imperterrito amore.
“Sai”, mi dice, “affrontiamo la malattia con le parole che sopravvivono nella mia memoria, le facciamo uscire dallo scantinato delle parole perdute dove la malattia vorrebbe rinchiuderle”.
Ora la luce è di un giallo bruno, con qualche nuance color sabbia. Il giorno sta raggiungendo la sua ora più vespertina, è il miracolo dell’incontro con l’imbrunire. Gli ultimi raggi affievoliti rendono rosati i contorni sfrangiati delle nuvole e mettono in risalto per contrasto il profilo scuro del monte di Portofino.
“Questo tramonto ci fa diventare romantici”, dice Federica.
“Adesso sarebbe meglio rientrare”, le dice.
“Sto bene, non preoccuparti. Aspettiamo l’atto finale. Di fronte a un tramonto così, possiamo zittire la malinconia”.
Lui la guarda, gli appare serena, indossa uno scialle azzurro con cui si protegge le spalle e il collo da una lieve brezza, più immaginaria che reale: la vera bellezza che non svanisce è lo stile.
Intanto il sole sta rallentando la sua parabola, forse per spiare le parole dei due, ormai vecchi, innamorati. Manifesta la sua approvazione inviando un ultimo raggio che sfiora i capelli bianchi di lei e dipinge i loro visi come una delle figure di Monet.
Dopo l’immensità del crepuscolo, anche la terrazza è avvolta dal manto gigantesco del cielo della notte che, come d’abitudine, si fa accompagnare per tutta la durata del suo viaggio dalla vecchia carovana di fantasmi e nostalgie e si lascia illuminare da repertori di stelle, delle quali è già possibile sentire l’odore.