Troppo spesso le tutele per i senior sulla carta rimangono inespresse, latenti. E, alla stessa maniera, si tende a sottovalutare il concetto di salute, inteso solo come benessere fisico, trascurando l’aspetto mentale e relazionale
«Il tema dei diritti dell’anziano è un tema un po’ trascurato nel senso che si dà per scontato che il diritto riguardi la persona dalla culla alla tomba. In realtà c’è un calo dell’applicazione del diritto e della tutela dell’anziano derivante probabilmente dal calo del suo peso sociale».
Nasce da qui la riflessione che Leo Nahon – specialista in Psichiatria e già direttore S.C. Psichiatria dell’Ospedale Niguarda – affida al libro L’età anziana: tempo di diritti e responsabilità nel capitolo che cura dal titolo Il diritto all’autodeterminazione e all’autonomia.
Professor Nahon, salute, età anziana e diritti come si intersecano?
Bisogna fare una premessa: la salute è qualcosa che tradizionalmente riguarda il corpo fisico. In realtà, le moderne concezioni di salute – al di là della classica definizione dell’OMS – ci dicono che la salute – e cioè le condizioni fisiologiche e fisiopatologiche del corpo – includono anche la rete di relazioni sociali del corpo stesso. Quindi, quando si dà una definizione di salute, bisognerebbe anche dare esplicitamente una definizione delle condizioni di rete relazionale che quel corpo ha. È nota l’influenza di un corpo in un ambiente malsano. Esiste anche un ecosistema relazionale che, nel caso dell’anziano, colpisce spesso la disponibilità che la persona anziana ha dei propri diritti.
Ossia?
I diritti dell’anziano sono codificati sulla carta, ma sono più indisponibili e direi in proporzione diretta col crescere dell’età e con il calare della forza mentale, fisica e sociale dell’individuo.
Il che vale a dire che il diritto non sia qualcosa di acquisito ma che, anzi, con l’andare degli anni vada protetto, vigilato, semmai con più attenzione?
In tutte le società, verosimilmente in quelle democratiche, dovrebbe essere più facile. Però, in tutte le società, la presenza di un diritto sulla carta non corrisponde necessariamente all’esercizio reale di questo diritto se non viene incentivato, implementato – direi, rivendicato – dal soggetto che ne ha bisogno. Ricordiamoci che i diritti restano morti, o comunque indifferenti, finché non ci servono, ma quando ci servono diventano una macchina che dobbiamo azionare.
Proviamo a fare un esempio.
Pensiamo al diritto a una visita medica in una lista d’attesa che non duri un anno o più. Come faccio io a esercitare il mio diritto alla salute? Non basta che mostri all’impiegato l’articolo della Costituzione che parla del diritto alla salute, devo avere dei mezzi per trasformare questo mio diritto astratto in un ottenimento concreto di una prestazione. E, purtroppo, questa capacità di tramutare un diritto da una lettera più o meno morta a un’azione praticabile dipende molto dalla forza del soggetto e quindi anche dalla sua età.
La società come dovrebbe intervenire per tutelare l’anziano che possa essere in una condizione di maggiore fragilità nell’esigere l’applicazione di un diritto?
Questo è un tema delicatissimo perché ovviamente è molto difficile sostenere che bisogna applicare differentemente i diritti a seconda dell’età; però, una modulazione nel modo in cui per esempio si garantisce l’accesso alle prestazioni sanitarie – ma direi anche a tutto il dispositivo sociale – da parte dell’anziano, beh questa dovrebbe essere pensata.
Se dovesse descrivere, quasi fotograficamente, lo stato dei diritti all’autonomia e all’autodeterminazione per gli anziani del nostro Paese, che quadro verrebbe fuori?
Un grande silenzio. C’è troppo silenzio sui diritti dell’anziano perché l’anziano, per la sua condizione, tende ad essere più silenzioso e questo silenzio dovrebbe avere una voce che i più giovani – o i più competenti o più forti – siano in grado di amplificare e talvolta interpretare estraendolo dal silenzio. Trasformare il silenzio degli anziani in una voce è quello che tutti noi che lavoriamo nella sanità dovremmo saper fare. Questo del silenzio è un dramma che si verifica anche nella quotidianità della medicina.
In che modo?
L’anziano in pronto soccorso spesso è un paziente che non sa dar voce bene alla propria malattia, al proprio disagio. Lo sanno bene i geriatri che sono abituati a interpretare il silenzio dell’anziano così come gli psichiatri sanno che devono leggere ciò che c’è al di là di quel poco o quel tanto che viene manifestato clinicamente. Quindi c’è un bisogno di interpretazione.
A chi ci legge e a chi avrà occasione di approfondire il vostro libro, quale messaggio vorrebbe arrivasse?
Dei progressi, ad esempio in medicina, ci sono stati negli ultimo quarant’anni per affermare la specificità del paziente anziano e dargli una dignità di oggetto di studio. Ormai la medicina sa che il paziente anziano non è un paziente con più anni. Nell’ambito dell’articolazione sociale, forse, questo processo non è così sviluppato. È molto facile trasformare la condizione di anzianità in una condizione di disabilità, proprio antropologicamente. Il paradigma della fragilità dell’anziano non significa che abbia delle disabilità e il fatto di essere differente non deve trasformarlo in una persona con disuguaglianze nei diritti.
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