Uscita anticipata prorogata ma con requisiti più stringenti: sono infatti escluse circa 20.000 lavoratrici
Al momento in cui scriviamo sarebbero circa 20.000 le lavoratrici escluse dalla possibilità di accedere alla pensione con “opzione donna”, che oggi si configura più come una prestazione a sostegno del reddito che come una misura di pensionamento flessibile. La Legge di Bilancio 2023 ha infatti prorogato la possibilità per le donne di andare in pensione con 35 anni di contributi, ma il requisito anagrafico è legato alla condizione genitoriale (a 58 anni se si hanno due o più figli, a 59 anni se si ha un solo figlio, a 60 anni se non si hanno figli) ed è inoltre necessario trovarsi in una delle seguenti condizioni: essere caregivers da almeno 6 mesi, avere una percentuale di invalidità civile pari o superiore al 74%, essere state licenziate o essere dipendenti di imprese che hanno istituito un tavolo di confronto per la crisi aziendale. In quest’ultimo caso il requisito anagrafico è 58 anni a prescindere dal numero di figli.
Secondo le stime del Governo, i nuovi requisiti dovrebbero ridurre la platea interessata a sole 2.900 lavoratrici, rispetto alle 23.812 che nel 2022, in base ai dati forniti dall’Inps, hanno scelto l’uscita anticipata.
È soprattutto il requisito anagrafico a destare non poche polemiche e a far parlare di incostituzionalità, ma vale la pena ricordare che già la Legge 335 del 1995, conosciuta come “Riforma Dini”, aveva previsto per le donne con figli, nel caso di accesso alla pensione di vecchiaia calcolata interamente con il sistema contributivo, uno sconto sull’età pensionabile pari a 4 mesi per ogni figlio, nel limite massimo di 12 mesi. Non si tratta quindi di una novità assoluta, ma va detto che il “bonus” introdotto dalla Legge Dini ha trovato fino a oggi scarsa attuazione e che, se applicato a una misura di pensionamento flessibile come “opzione donna”, può apparire discriminatorio e soprattutto non affronta il problema del gap di genere nelle pensioni, dovuto a salari più bassi e a carriere spesso discontinue.
L’Inps ha rilevato che nell’ultimo biennio l’importo medio mensile delle pensioni femminili è inferiore del 30% rispetto a quello delle pensioni maschili e ancora maggiore è il divario se consideriamo le pensioni liquidate con “opzione donna”: circa la metà degli assegni accolti dall’Inps nel 2022 vale meno di 500 euro al mese e quasi il 90% non arriva a 1.000 euro. A tal proposito, è interessante ricordare che la già citata Legge Dini, in alternativa allo sconto sull’età pensionabile, prevedeva la possibilità, anche questa finora poco utilizzata, di ottenere un calcolo più favorevole dell’assegno grazie all’applicazione di un coefficiente di trasformazione maggiorato di un anno, nel caso di uno o due figli, o di due anni, nel caso di tre o più figli.
Proprio nelle ore in cui scriviamo queste righe, il Governo sta lavorando per ampliare la platea interessata e consentire l’uscita con “opzione donna” a 10.000 lavoratrici in più, ma le ipotesi sul tavolo non sembrano convincere il Ministero dell’Economia visto il costo elevatissimo dell’ampliamento.
Rimane il fatto che “opzione donna”, in vista dell’annunciata riforma strutturale del 2024, pone una questione molto più ampia e obbliga a una riflessione sugli squilibri di genere che caratterizzano i moderni mercati del lavoro – e di conseguenza le pensioni – e che sono stati ulteriormente accentuati dalla pandemia.
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