Parliamo di razzismo, oggi, argomento spinoso su cui ho ricevuto più di una lettera.
Il razzismo è un sentimento che alberga abbastanza spesso nelle anime deboli, nelle persone – per lo più uomini – che non si sentono sicure della propria identità, delle proprie qualità, del proprio peso sociale, e hanno bisogno di stabilire che sono meglio di qualcun altro, di qualche comunità di diversi, per colore della pelle, per religione, per abitudini, storia, tradizione.
Il razzismo ha ucciso milioni di persone.
E non ha ancora finito di uccidere, perseguitare, infierire.
Fra tutte le forme di razzismo, ne converrete, la peggiore è quella che i Paesi anglofoni chiamano ageism, termine coniato nel 1969 da un gerontologo statunitense, Robert Neil Butler. Per ageism, tradotto malamente in italiano con la parola “ageismo”, si intende una forma di pregiudizio e svalorizzazione ai danni di un individuo, in ragione della sua età.
Perché è la peggiore forma di razzismo? Perché è la più stupida.
Pensateci un attimo: se disprezzi e svaluti i neri sei un imbecille, ma se sei un imbecille bianco, non sarai mai nero, bianco resterai tutta la vita.
Se, al contrario, sei un imbecille giovane che disprezza sua nonna in quanto “non-più-giovane” o “stata-giovane nel secolo scorso”, prima o poi ti accorgerai che la giovinezza è una condizione transitoria. Smetterai di avere vent’anni per averne trenta, quaranta, settanta e poi ottanta e novanta.
Cioè: tutti diventeremo vecchi (io lo sono già e non mi ci trovo poi così male), o prima o dopo. L’unico modo per non diventare vecchi è morire giovani.
Non mi pare che sia il caso di augurarselo, no?
Quindi l’ageismo è razzismo contro se stessi. Una forma contorta di inconsapevole masochismo. Eppure resiste e, con l’aumento dell’aspettativa di vita, peggiora.
Si radicalizza. Si espande.
Vorrei lanciare, allora, da questo spazio dedicato al Terzo Tempo delle nostre vite, un appello: segnalatemi tutti gli episodi di ageismo che avete subìto, o voi personalmente, se siete Grandi Adulti come me, o che ha subìto vostra zia, vostra nonna, vostra madre, se non siete ancora entrati personalmente negli anni d’argento (e fango) ma tenete d’occhio i vostri cari.
Dovrei dire “le vostre care”: suona male, ma rispecchia una dolorosa realtà. Sono le donne quelle che sperimentano, più duramente e con più frequenza, la discriminazione in base al dato anagrafico. Sono loro, siamo noi, le Streghe, le Befane, quelle “d’una certa”, eccetera eccetera.
Noi donne siamo spesso disprezzate in quanto non più fertili o non più desiderabili. Sono aggettivi squalificativi buttati là con apparente negligenza. Sguardi che invece di vederti, ti scansano. Risatine.
C’è un sottinteso intollerabile in tante discussioni: “zitta tu che sei vecchia”. Vecchia: quindi incapace di capire il nuovo, di allinearti alle opinioni correnti, di dire parole e provare sentimenti alla moda. Non è vero, naturalmente, ma chi di noi ha il coraggio di puntualizzare?
Quando vi sentite discriminate per la vostra età, vi assale una rabbiosa timidezza e perdete la voglia di combattere. Non dovete, non dovete ritirarvi, ma segnalare, denunciare, rispondere.
Vi faccio una proposta: inviate le vostre denunce – attraverso una delle modalità riportate di seguito – scrivendo “SOS ageismo”. È un servizio per tutti quelli che non vogliono più incassare in silenzio, invece di reagire.
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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