Da sempre gli uomini si interrogano su cosa si nasconda nel profondo del mare. Oggi purtroppo abbiamo una risposta a questa domanda: i nostri rifiuti. Cimiteri di automobili, scaldabagni, motorini, elettrodomestici, giocattoli, vecchie reti e attrezzatura per la pesca, vestiti, carta. Nel buio delle profondità oceaniche si accumulano rifiuti di ogni genere, a formare vere e proprie discariche abusive sottomarine, invisibili ai nostri occhi.
Dei milioni di tonnellate di rifiuti che entrano in mare ogni anno, solo una minima parte è visibile, perché finisce sulle spiagge o galleggia in superficie, mentre la maggior parte finisce sul fondo.
Una lontananza che diminuisce in qualche modo la percezione della gravità di questo fenomeno, e ci induce, in questo come in altri casi, a una colpevole sottovalutazione.
Il fondale marino rappresenta la destinazione finale di tutti i materiali dispersi in acqua. Stando ai dati raccolti dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca sull’Ambiente (Ispra), oltre il 70% dei nostri scarti finiti nelle acque, viene depositato in profondità.
E quasi 8 rifiuti su 10 sono fatti di plastica, materiale resistente anche per millenni che sembra ormai aver colonizzato e intossicato i nostri mari. Fra l’altro l’ambiente buio dei fondali marini rallenta i processi di degradazione: l’assenza di luce, la scarsità di ossigeno e una temperatura bassa e costante, garantiscono una lunga vita al marine litter – la spazzatura del mare.
A fotografare la gravità del problema dei rifiuti depositati sul fondo dei mari è un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Research Letters. Lo studio ha dimostrato che ad elevate profondità, oltre i 1.000 metri, spesso la biomassa pescata con lo strascico (pesci, crostacei, molluschi) è uguale o inferiore a quella dei rifiuti. Come dire che a certe profondità ci sono più rifiuti che pesci. E si tratta, secondo gli esperti, di un trend destinato ad aumentare, tanto che nei prossimi trent’anni il volume dei rifiuti marini potrà superare i tre miliardi di tonnellate. «I rifiuti del fondo marino possono danneggiare gli organismi acquatici di tutte le dimensioni per intrappolamento, soffocamento e anche per ingestione – si legge nello studio -. Sebbene siano state condotte molte analisi, i percorsi, la distribuzione e la reale portata del danno dei rifiuti sul biota (il complesso degli organismi animali e vegetali) sono in gran parte sconosciuti». Quello che invece sappiamo è che, a livello globale, sono almeno 693 le specie che interagiscono con i rifiuti marini e che, come dicevamo, la maggior parte di essi è plastica.
Molte specie di pesci ingeriscono regolarmente frammenti di plastica, altre rimangono intrappolate in reti da pesca abbandonate. Le tartarughe marine sono particolarmente vulnerabili, poiché possono confondere sacchetti di plastica o altri oggetti galleggianti con gli organismi di cui si nutrono, come le meduse.
Del resto, la contaminazione chimica della plastica è ormai ubiqua, non solo mari, fiumi e laghi, riguarda persino l’aria. Respiriamo, beviamo e mangiamo plastica, è nel nostro organismo, nella placenta umana come nello sperma, con impatti pesanti non solo sul funzionamento degli ecosistemi, ma anche sulla nostra salute.
«Abbiamo dato l’oceano per scontato», ha dichiarato lo scorso anno il segretario ONU António Guterres in occasione dell’apertura della Conferenza delle Nazioni Unite sugli oceani, che dovrebbe portarci nel 2024 alla firma di un trattato internazionale per la riduzione dell’impatto della plastica sugli ecosistemi, sulla natura, su tutti noi.
È un negoziato importante per un obiettivo cruciale: un mondo e un mare che non soffochino nella plastica.
Con le attuali dinamiche di consumo, la produzione di plastica è destinata a raddoppiare nei prossimi quindici anni. Entro il 2050, senza un trattato ambizioso, potrebbe addirittura triplicarsi.
Il mare, il più grande e meno protetto dei beni comuni, è uno spazio ancora senza regole, ma non esiste una possibilità di futuro senza un’ecologia del mare. Si tratta di una sfida enorme che dobbiamo avere il coraggio di accettare.
Francesca Santolini, giornalista scientifica, saggista, divulgatrice ambientale. Collabora con il quotidiano La Stampa, dove scrive di ambiente, clima e sostenibilità e con la trasmissione Unomattina in onda su Rai Uno, dove si occupa di ambiente. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e radiofoniche intervenendo sui temi d’attualità legati all’inquinamento e al clima. Per Marsilio ha scritto “Passio Verde. La sfida ecologista alla politica” (2010), mentre per la casa editrice Rubbettino “Un nuovo clima. Come l’Italia affronta la sfida climatica” (2015) e “Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove andranno” (2019).
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