«Susanna è il baricentro della mia vita, la mia compagna. Da qualche anno è anche mia moglie e la mia caregiver. Sì, perché lo è diventata, a poco a poco, da quel giorno in cui mi diagnosticarono il Parkinson. Susanna piangeva, ma il mio sentimento, invece, era più simile a una liberazione». È così che comincia il racconto di Giangi Milesi, classe 1953, un uomo che per anni si è speso nel panorama italiano del no-profit ed è diventato, poi, Presidente della Confederazione Parkinson.
Milesi è anche uno degli organizzatori di “Non chiamatemi morbo”, un vero e proprio progetto multisettoriale per raccontare il Parkinson e i suoi effetti. La sua testimonianza è una delle 29 raccolte nell’iniziativa da cui sono nati un libro, una mostra fotografica, un percorso educativo per le scuole, una radio e una campagna pubblicitaria.
Una mostra fotografica parlante
Per sradicare stereotipi e pregiudizi non basta fornire informazioni, ma servono storie ed esempi da emulare. E serve che qualcuno le storie le racconti. È così che gli organizzatori di “Non chiamatemi morbo” hanno deciso di creare un percorso per immagini, immortalato sapientemente da Giovanni Diffidenti. A raccontarla sono le voci di Claudio Bisio e Lella Costa che, con sensibilità e talento, si trovano a impersonare “Mr. and Mrs. Parkinson”. Nei panni della malattia, infatti, i due doppiatori sanno far piangere e far ridere, spiegando le difficoltà, i nuovi ostacoli, ma anche le nuove opportunità. Tra questi 17 monologhi e dialoghi, c’è anche la storia di Riccardo Merisio.
«Mi chiamano confidenzialmente il Parkinson, ma sbagliano», racconta Bisio nei panni della malattia. «Dovrebbero chiamarmi I Parkinson perché non siamo definibili e non abbiamo un solo modo di manifestarci. Abbiamo mille sintomatologie: c’è chi trema, chi non si muove più, chi non cammina, chi non sa stare fermo un attimo, chi non sa più usare le mani. Riccardo ne è un esempio: è uno di quelli che ho colpito di più e più gravemente. Ho bloccato i suoi passi e lo costringo a muoversi ininterrottamente. Riccardo è l’esempio vivente della “paralisi agitante”. Eppure, anche se Riccardo dipende dalla sorella e dagli altri famigliari, ama ancora la vita e ha fatto di tutto per combattermi. Si circonda di amici, ricorda i viaggi che ha fatto, scrive. Noi siamo tanti, siamo I Parkinson, ma anche Riccardo non è solo. C’è tutto un mondo attorno a lui».
Un libro per parlare della malattia
Ma come per Riccardo, sembra che uno dei fili conduttori di tutta l’iniziativa sia “l’unione fa la forza”. Un mess03aggio che risulta ancora più chiaro sfogliando il libro scritto dalla giornalista Sabrina Penteriani e Marco Guido Salvi, presidente dell’Associazione Italiana Parkinson di Bergamo. Fra le pagine di “Non chiamatemi morbo” si trovano i volti e i percorsi di quindici persone alle prese con il Parkinson e le storie di due caregiver. Sì, perché l’attenzione alle relazioni di affetto e di cura non passa in secondo piano all’interno di questa iniziativa. Sono proprio le persone care, infatti, che molto spesso costituiscono un sostegno essenziale e l’arma migliore per contrastare la malattia. «Il loro esempio – scrive Giangi Milesi – infonde il coraggio a non isolarsi, a reagire alla depressione e allo stigma, curandosi e curando la qualità della propria vita».
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