Cresce l’aspettativa di vita per le persone affette da questa patologia ma rimangono forti problematiche per il loro inserimento nel mondo del lavoro.
Non possono più studiare, ma solo in pochi lavorano, molti non hanno un centro o un corso da frequentare e così trascorrono ore e ore a casa, condannati a un’inattività che non è una scelta né una colpa, ma piuttosto una condanna. È la realtà di tanti, troppi, adulti con sindrome di Down. Un tempo se ne vedevano pochi, perché a causa di complicazioni sanitarie spesso associate a questa sindrome cromosomica, l’aspettativa di vita di queste persone era quasi sempre bassa. Ora la situazione è cambiata: se nel 1929 l’aspettativa era solo di nove anni, oggi in Italia e in Europa l’80% di queste persone raggiunge i 55 anni e il 10% arriva ai 70. Una buona notizia, certo, ma anche una grande sfida sociale, perché non si possono aggiungere anni alla vita senza aggiungere, al tempo stesso, vita agli anni. E su questo, c’è tanto da fare.
Impegnata da oltre 40 anni proprio su questo fronte, c’è l’Associazione Italiana Persone Down, che in questi giorni ha celebrato la Giornata nazionale delle persone con sindrome di Down. «La formazione e l’inclusione lavorativa, così come la residenzialità, sono state sempre al centro del nostro impegno – ci spiega Patrizia Danesi, coordinatrice nazionale dell’associazione -. Già negli Anni ’80 costruimmo al nostro interno un gruppo di lavoro per parlare di residenzialità per la vita indipendente. Oggi, la maggior parte dei nostri progetti nazionali sono rivolti proprio a giovani e adulti, quindi finalizzati al riconoscimento del loro essere, appunto, ‘grandi’. Accanto ai nostri storici percorsi di educazione all’autonomia, portiamo avanti progetti che riguardano la residenzialità: vere e proprie case in cui gruppi di uomini e donne, tra cui coppie di fidanzati, imparano a vivere insieme, in autonomia, seppur con il supporto degli operatori. Ci sono le vacanze estive, in cui pure si impara a vivere insieme e a prendersi cura del proprio tempo e del proprio spazio, come pure del tempo e dello spazio condivisi con altri. Il progetto ‘Amore, amicizia, sesso. Parliamone adesso’ ha accompagnato tanti a vivere consapevolmente la propria affettività: all’interno dell’associazione, ci sono diverse coppie di fidanzati, alcune sono sposate già da anni, a dimostrazione del fatto che le persone con sindrome di Down possono e vogliono scegliere con chi vivere. Proprio come ciascuno di noi».
Ingrediente fondamentale di quest’autonomia è, naturalmente, il lavoro. Tasto dolente, visto che in base a una recente ricerca svolta proprio per AIPD dal Censis , solo il 13,3% del campione ha un contratto da dipendente o collaboratore: di questi, il 35% percepisce un compenso minimo. Tanti sono però oggi anche i lavoratori con sindrome di Down impiegati all’interno di aziende, non solo nel settore della ristorazione e dell’accoglienza, ma anche in grandi catene commerciali, grazie all’accompagnamento e al supporto di AIPD e di altre associazioni. «Si sta sempre più sviluppando la consapevolezza, anche tra i datori di lavoro, di quanto queste persone possano arricchire un’azienda, con la dedizione, la serietà e la grande capacità relazionale che portano con sé – riferisce ancora Danesi -. Certo, le difficoltà non mancano – aggiunge – e a un certo punto subentra la stanchezza, anche a causa delle problematiche fisiche associate, per cui sarebbe importante, per esempio, rivedere l’età pensionabile per le persone con sindrome di Down, così da favorirne il prepensionamento. Soprattutto, però, occorre fare in modo che sia colmato quel vuoto che spesso attende i ragazzi con sindrome di Down quando escono dal percorso scolastico: la ricerca del Censis ci ha rivelato che dopo i 44 anni, appena il 9% lavora, il 41,3% frequenta un centro diurno, mentre ben il 44,8% ‘non fa nulla’ e ‘sta a casa’. È un dato che ci preoccupa molto e ci stimola a sollecitare politiche e servizi».
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