Nino Benvenuti si racconta. Il campione istriano, in occasione dei sessant’anni delle Olimpiadi di Roma, ripercorre per noi la sua carriera. Torna con la mente lì, dove tutto ebbe inizio, quel 25 Agosto 1960. Perché, come dice Nino: «Partecipare a una Olimpiade è già, di per sé, un orizzonte che appare irraggiungibile. Vincerla, poi, è come toccare l’alto dei cieli».
Chi è Nino Benvenuti?
Mi chiamo Giovanni ma…credo in tutta la mia vita non ci sia stato, mai, nessuno che non mi abbia chiamato altri che Nino. Sono un ragazzo che ama il pugilato e che ha sognato, fin da bambino, di incarnare una grande passione di mio padre. E l’ho fatto.
Lei è nato ad Istria il 26 Aprile 1938: cosa significava in quel periodo essere un istriano?
Significava essere italiano, a tutti gli effetti. Isola era un posto meraviglioso, con un mare incantevole e una caratteristica terra rossa. Ed è ben detto: significava. Perché poi, con l’Esodo, nulla fu più come prima. E quell’essere italiani, anziché un orgoglio, diventò – agli occhi di chi sovvertì quello status – una macchia indelebile, una colpa. Ma…questa è un’altra storia (straordinariamente raccontata ne “L’Isola che non c’è” e nel fumetto “Nino Benvenuti – Il mio esodo dall’Istria).
25 Agosto 1960: cosa rappresenta questa data per lei?
Un sogno dal quale non mi sono mai risvegliato perché fu realtà. Partecipare a una Olimpiade è già, di per sé, un orizzonte che appare irraggiungibile. Vincerla, poi, è come toccare l’alto dei cieli.
Che sapore aveva la medaglia d’oro conquistata alle Olimpiadi di Roma, quali emozioni suscita in lei il ricordo di quel traguardo?
Ha il sapore dell’ambrosio, il gusto di una leccornia che sembra un dessert ed invece è…solo il primo piatto. Avevo già vinto tutto da dilettante ma fu da lì che tutto iniziò per davvero.
Stava scrivendo la storia del pugilato in quel momento, c’era questa consapevolezza?
Ma no, assolutamente. Quando sei al centro della carriera, la vivi e basta. Non ti concentri sul successo. Fai ciò che va fatto, al meglio, cercando di impegnarti con disciplina e, al tempo stesso, cogliendo l’attimo.
E la soddisfazione più grande?
Tante. Di titoli e primati (lo riconosce senza superbia alcuna, d’altronde è l’unico italiano a essere stato inserito in tutte le Hall Of Fame e, da qualche anno, Ambasciatore della Boxe Italiana nel mondo, ndr) ho fatto incetta, è vero. Ma su tutti primeggia quello di Campione Olimpico. Il mio cuore, a forma di Medaglia d’Oro, batte ancora al ritmo dei Cinque Cerchi.
Di tutti quelli incontrati sul ring, quale è stato l’avversario più temuto?
Senza dubbio quello che mi permise di salire sul podio più alto, dopo l’Oro olimpico: Emile Griffith (battuto per ben due volte, su una memorabile triade di incontri americani) grazie al quale fui proclamato Campione del Mondo al Madison Square Garden, il tempio planetario della Boxe.
Quale il più leale?
Direi sempre Emilio. (Così Nino ha sempre chiamato affettuosamente Griffith), che è rimasto – insieme a Giuliano Gemma – un mio fratello, dall’altra parte del pianeta. E che portai in Italia, nel famoso Magic Round del 2010 (organizzato da Anita Madaluni, sua biografa e storica addetta stampa, ndr) per sostenerlo nella sua indigenza e nel suo stato di salute. Poi, dopo qualche mese, al Radio City Music Hall di New York (sul palco insieme a Sly Stallone, Liza Minnelli, Manhattan Transfer e altri, ndr).
Nel 1970 appende i guantoni al chiodo. Una decisione arrivata dopo la cruenta e appassionante battaglia che vide Carlos Monzon avere la meglio. Come visse quel cambiamento?
Mi ci ero già adeguato, alla vita normale. Ero pronto. Anche se di normale, nella mia vita, c’è sempre stato ben poco. L’attività di cronista televisivo, poi, mi diede la possibilità di continuare a “fare pugilato” con le parole, anche senza guantoni.
A 60 anni dalle Olimpiadi di Roma: come è cambiato lo sport, e in particolare il pugilato, in Italia?
Uh…non è solo cambiato, ma ha avuto una vera e propria mutazione genetica. Umana e sportiva.
Cosa consiglierebbe a un giovane pugile che oggi vuole intraprendere questa carriera: è giusto seguire la passione o deve prevalere la razionalità?
Parlo per quel che ha segnato la mia vita: passione, tanta, e disciplina, ancora di più. Poi, certo, una buona dose di coraggio. Insomma: se non si è incamminati su questo sentiero, forse, meglio lasciar perdere il professionismo per dedicarsi al mero benessere che può dare qualche allenamento ogni tanto, giusto per tenersi in forma.
Ci ha lasciati un altro grande dello sport, Sandro Mazzinghi. Che dire…
Un guerriero, uno che m’ha dato del gran filo da torcere. Non fu per nulla facile batterlo. Quando due come noi si incontrano, non esiste il vincitore e lo sconfitto. Esiste un grande match. Un avversario col quale avrei anche potuto perdere, ma senza disonore. Ciao Sandro. Starai sicuramente in qualche palestra, Lassù…
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