L’irriverente fumettista dal tratto inconfondibile è stato un pioniere del fumetto umoristico del Novecento italiano. Si divertiva a sperimentare anche durante il periodo del fascismo, riempiendo all’inverosimile le sue tavole con dettagli folli e improbabili
Per il centenario della sua nascita l’Associazione “Amici del Vittorioso” ha annunciato la ristampa integrale di tutte le copertine del Vittorioso, disegnate negli anni da Benito Jacovitti. Ne prenoto fin da ora una copia perché ho una gran voglia di una reimmersione totale nell’universo di “Jac Lisca di Pesce”, con tutti i suoi oggetti assai improbabili, i salami, i rocchetti, le mani mostruose, le bisce. Con tutte le sue parabole più che assurde dove, in un giallo qualsiasi, può capitare che l’assassino finisca per essere assassinato e l’assassinato diventi assassino. Quelle storie che incontrarono sul proprio cammino varie censure. La censura fascista che si sforzava di scorgere a ogni costo, nella forzuta signora Carlomagno, un’ironica e non tollerabile allusione al duce. Quella cattolica per cui il busto e il posteriore delle sue incredibili donne erano troppo prominenti. Quella statale che, ai tempi dei paginoni su Il Giorno di Mattei, non permetteva di scherzare, sia pure bonariamente, sugli idrocarburi nazionali. Quella ideologica degli anni Sessanta e Settanta, sdegnata perché, in una storia di Cocco Bill, i discoli rivoluzionari erano messi in fuga dalla maestra armata di lazo, mentre il pistolero se la rideva a crepapelle: “E che bel movimento. Un movimento studentesco”.
Non sono io il primo a considerare Jacovitti il più innovativo autore del fumetto umoristico del Novecento italiano. Nella sua vita disegnò di tutto, dai mazzi di carte ai manifesti elettorali, alle figurine sopra i gelati. Dalle “panoramiche”, le grandi illustrazioni corali intrise di comicità surreale fino alle storie prodotte tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta, dal Vittorioso al Giorno, al Corriere dei Piccoli, alla Domenica del Corriere al Diario Vitt fino alle tavole del Pinocchio; quel curioso laboratorio favolistico che gli permise di sperimentare in libertà ogni possibilità creativa.
Benito Jacovitti, uno dei tre autori, con Fellini e Sordi, che hanno descritto meglio l’Italia (secondo Oreste del Buono), il Fellini del nostro fumetto (secondo Goffredo Fofi), è tutto in questo caleidoscopio fulminante di tavole affollate, di figure surreali e simpatiche anche quando incarnano il Male nelle sue tante versioni, dal gangster all’indiano cattivissimo. I paginoni così gremiti e pullulanti di un’umanità assai improbabile o del tutto assurda nascono a ridosso di una assai icastica rappresentazione dell’“anima” e dei “vizi nazionali”, e attraverso la lente umoristica vogliono anche mordere “la polpa del tempo”: basti pensare alla figura di “Battista, l’ingenuo fascista” che, nel suo disorientamento umano, morale, politico, scivola verso il qualunquismo. In queste storie sgangherate dove le tecniche del gran cartoonist si servono per ridere di ripetizioni, inversioni, interferenze, il fumetto conferma in ogni sua figura l’impressione di scoppiare, ogni singola vignetta fa un’enorme fatica a contenere l’illustrazione. E per raccontare le imprese funamboliche e incredibili di Alonza Alonza detta Alonza, Alvaro il Corsaro, Elviro il Vampiro, Gallina Gamba di Quaglia, Giacinto corsaro dipinto, Jacovitti attinge alla sua incontenibile satura lanx che unisce geniale inventiva linguistica e surreale estro figurativo. Affronta tutti i generi, li percorre, li trasforma, li contamina. Dal western al giallo alla fantascienza alla cappa e spada, con incursioni nel melo, l’erotico, il favolistico, nel segno del palazzeschiano “lasciatemi divertire”, nell’impenitente apologia del riso e della deformazione caricaturale che non risparmia i classici. Come per lo straordinario Don Chisciotte, un piccolo capolavoro del genere, apparso nel Vittorioso nel 1950, ovviamente non fedele all’originale, letterario filtrato dall’inconfondibile umorismo surreale di Jacovitti, straripante di dettagli, con il suo inconfondibile segno.
Un ricordo personale; mi capitò di intervistarlo nel periodo che precedette la sua caduta che avvenne con gli anni Ottanta quando, senza più riferimenti sicuri nella committenza su cui aveva saputo creare la sua figura di cartoonist, il suo estro si era un po’ appannato, fino all’ultimo Cocco Bill.
Benito Franco Jacovitti mi apparve come un tranquillo sessantenne, un po’ pacioccone, con abitudini di borghese dichiarate e convinte. Quando smetteva di lavorare a metà pomeriggio, andava a fare la spesa con la moglie, coltivava l’hobby delle vecchie carabine e delle automobili in miniatura, cercava il dialogo difficile con la figlia Silvia, faceva moraleggianti discorsi sulla violenza e sul quieto vivere come suprema aspirazione. Di una cosa era orgoglioso, un curioso affare, un investimento su se stesso a suon di milioni e vincendo un’agguerrita concorrenza. Aveva comprato con l’esclusiva le sue origini grafiche: le prime storie di Pippo, Pertica e Palla dal segno ancora incerto, le prime esilaranti panoramiche. L’affare era stato dei migliori, come un attico a Vigna Clara preso a prezzo di svendita. Dopo pochi mesi, quel materiale iconografico valeva già il doppio di quanto era stato pagato. E sarebbe ancora cresciuto di prezzo, visto che si vendeva bene anche all’estero. Lui ne era sicuro, proprio sicuro. E ridacchiava con grande soddisfazione.
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