Sembra lontanissimo il 2050, ma in realtà mancano solo 30 anni. Tre decenni ci separano dal sorpasso, forse evitabile, degli over 50 inattivi e pensionati sulla forza lavoro. Una situazione esplosiva a livello economico, sociale e previdenziale che condividiamo con la Polonia e la Grecia. A tracciare questo scenario è stata l’Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel rapporto Working better with Age.
Nel dettaglio, nel nostro Paese la percentuale di aumento potrebbe raggiungere il 105,7% rispetto al 68,6% di oggi, in Francia l’80,5%, in Germania il 65,3%. In media nei Paesi Ocse il rapporto tra persone inattive e persone occupate dovrebbe salire dall’attuale 42% al 58%. Ritardando, invece, l’età media in cui i lavoratori più anziani lasciano il mondo del lavoro e riducendo il divario di genere nella partecipazione della forza lavoro in età più giovane, questo aumento medio per l’area Ocse potrebbe essere ridotto al 9%.
Il problema è quindi generalizzato. D’altra parte l’età media è in costante aumento nei Paesi Ocse e dai 40 anni di oggi dovrebbe salire ai 45 anni intorno al 2050. Di fronte a questo rapido invecchiamento della popolazione, unito ai bassi livelli di natalità, «i governi devono promuovere maggiori e migliori opportunità di lavoro in età avanzata per proteggere gli standard di vita e la sostenibilità delle finanze pubbliche», sottolinea l’Organizzazione di Parigi.
Una questione che in Italia è destinata a incidere di più visto che l’età media è già pari a 45,2 anni. Inoltre, nonostante l’aumento dell’occupazione degli over 50 negli ultimi anni, rimaniamo ancora ampiamente al disotto della media europea che è del 59.5%. Infatti, in Italia gli occupati tra i 55 e i 64 anni si attestano al 53.9%, in Islanda all’81.4%, in Svezia al 78.3%, in Germania al 72.2%. Peggio di noi fanno Francia (52.2%), Spagna (53.3%), Grecia (42.4%), Belgio (50.9%).
Sull’età del pensionamento sono stati compiuti molti progressi per incoraggiare i lavoratori più anziani a continuare a lavorare fino all’età di 65 anni e oltre. Tuttavia, praticamente in tutti i Paesi Ocse, l’età effettiva in cui gli anziani escono dal mercato del lavoro è ancora più bassa rispetto a 30 anni fa, nonostante un numero maggiore di anni rimanenti di vita. Ciò è spiegato da una combinazione di scarsi incentivi a continuare a lavorare in età avanzata, riluttanza dei datori di lavoro ad assumere e trattenere lavoratori più anziani e investimenti insufficienti nell’occupabilità per tutta la vita lavorativa.
Il nostro Paese è tra quelli che ha adattato maggiormente l’aumento della speranza di vita con l’età di uscita dal mondo del lavoro. Come rileva la stessa Ocse, in Italia chi è entrato nel mondo del lavoro nel 2016 all’età di 20 anni andrà in pensione a 70 anni e più, lo stesso accadrà in Danimarca e Olanda. A meno di 65 anni, invece, in Francia, Lussemburgo e Polonia. La media Ocse è di 66 anni.
A ben guardare però, secondo le più recenti analisi, l’età effettiva di uscita dal mondo del lavoro, rispetto a quella legale, in Italia oggi si aggira intorno ai 62 anni (almeno quattro anni prima). A questo si aggiunge il pensionamento anticipato con la Quota 100, istituita in via sperimentale fino al 2021, che prevede 62 anni di età e 38 anni di contributi.
Cosa manca? Più in generale, come denuncia il rapporto Ocse, per i lavoratori più anziani e per garantire una permanenza a lavoro più lunga e di qualità, è necessaria una formazione continua con programmi di aggiornamento adeguati ai tempi. Ad esempio, rimane molto pesante il divario tra i giovani e gli anziani sulle competenze digitali anche nei Paesi più virtuosi.
Sono anche necessarie misure di accompagnamento al pensionamento che favoriscano un’uscita graduale dal mondo del lavoro. In Europa solo il 10% delle persone con età 60-64 o 65-69 anni riesce a combinare la pensione con un impiego. In particolare, in Italia soltanto il 3.9%, in Francia il 4.1%, in Portogallo il 6.8%, nel Regno Unito il 16.3% e in Svezia il 17.2%. Infine, in Europa il 78% dei lavoratori più anziani vede proprio nella mancanza di opportunità di un’usciata graduale dal mondo del lavoro, la ragione principale per smettere di lavorare definitivamente.
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