I negazionisti sono caratterizzati da uno scetticismo storiografico, non interpretano semplicemente fenomeni storici o contemporanei, ma si spingono a negarne l’esistenza
Il negazionismo è quel fenomeno che non si limita alla rimozione della realtà, ma ne costruisce una alternativa. Nel corso degli anni ne abbiamo avuto diversi esempi, a partire da quello storico che ha messo in discussione l’Olocausto, e ha reinterpretato fatti connessi al fascismo e al nazismo attraverso uno scetticismo storiografico portato all’estremo. In tempi più recenti abbiamo assistito a teorie che hanno minimizzato i rischi del riscaldamento globale, che hanno negato la presenza del virus dell’Hiv, solo per citare i casi più eclatanti. Oggi i negazionisti più attivi, grazie anche alle possibilità offerte dalla rete di amplificare il messaggio, sono quelli che minimizzano l’esistenza e i rischi del Covid-19 e che arrivano perfino a negare le vittime della pandemia e i ricoveri in ospedale. Alla negazione del fenomeno si associa spesso anche una teoria del complotto, come quella che collega la rete 5G alla pandemia e che riporta in auge vecchie tesi su collegamenti elettromagnetici e tumori.
Insomma, i negazionisti non sono nati oggi, ma certamente lo sviluppo del web ha contribuito ad amplificarne i messaggi. Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università degli studi di Milano, esperto di Data Governance e Cybersecurity, individua quattro epoche che documentano l’avvicinamento dei negazionisti alle reti telematiche: i primi tentativi di utilizzare le reti pre-internet, poi i primi esperimenti di connessione internet, l’era del web grafico e infine quella dei social network e dei dispositivi mobili. Gli abbiamo chiesto se insieme all’evoluzione del contesto telematico ci sia stato anche un cambiamento nei contenuti diffusi.
«Le frasi, gli stereotipi, le offese che si trovavano già in giornali razzisti in Canada agli inizi del Novecento, e nelle offese agli ebrei tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, sono rimasti più o meno gli stessi – spiega Ziccardi -; cambia invece completamente la modalità di trasmissione, la resa grafica tramite “meme”, il modo per renderli virali ma, soprattutto, per creare messaggi che siano adatti a un contesto – quello telematico – dove il tempo di attenzione nell’utente è di pochi secondi, con riferimento ai contenuti che “passano” sul suo telefonino. Di conseguenza slogan, messaggi brevi, immagini, fotomontaggi e brevi video sono diventati i nuovi vettori di tali messaggi».
Oltre ai contenuti che passano nel deep web, molto spesso oggi assistiamo a una diffusione di idee negazioniste – non solo storiche, ma anche scientifiche – sui comuni social, da parte di soggetti che molto spesso non sono nemmeno legati ad un network. Quali sono i rischi?
Il rischio principale è la capacità diffusiva, e persuasiva, di tali messaggi dovuta alla visibilità conferita dalla stessa architettura della rete, da algoritmi che non conosciamo, da modalità avanzate di profilazione che individuano senza problemi soggetti che si sa già che accoglieranno tali contenuti. Inoltre, vi è il fenomeno dell’“uno uguale a uno” in rete, per cui le competenze scientifiche, la preparazione, gli studi vengono completamente azzerati nel confronto anche su temi delicati come questi e che richiedono specifiche competenze storiche (si pensi a quello che sta accadendo nel mondo della medicina), e due opinioni possono avere senza problemi la stessa visibilità, gli stessi commenti, lo stesso apprezzamento dagli specifici follower, anche se nemmeno paragonabili dal punto di vista dell’autorevolezza di chi parla.
La Cassazione ha ritenuto perseguibile un’associazione a delinquere che opera tramite il web. Che peso hanno le normative nazionali in un mondo che non ha confini? E quali gli altri strumenti di contrasto, oltre al diritto?
Purtroppo il diritto è molto confuso, in tanti Paesi, su questi temi. Vi è il problema che non esiste una definizione condivisa di odio e di istigazione all’odio da parte dei Legislatori. Ci sono normative nazionali che sono molto utili e che puniscono i comportamenti più gravi, ma è impensabile cercare di contrastare il fenomeno soltanto con l’uso del diritto. Occorrono anche un’attività educativa a tutti i livelli (compresa stampa e politica) e un intervento specifico di chi governa la tecnologia. Francia e Germania si sono mosse per prime con una normativa molto stringente nei confronti delle piattaforme (in Francia ritenuta in parte incostituzionale), mentre altri Paesi, ad esempio la Spagna, hanno puntato più sull’aspetto (ri)educativo anche di chi odia, soprattutto se adolescente, e non solo delle vittime.
Quale può essere il ruolo del provider nella veicolazione o nel blocco di contenuti ritenuti pericolosi?
Il provider ha un ruolo centrale, ma occorre disciplinarlo con cura, magari con percorsi di co-regolamentazione tra Stato e piattaforme. Veniamo da vent’anni, in Europa, dove è stata giustamente lasciata una grande libertà ai provider per consentire il boom dell’economia digitale, rincorrendo il mercato statunitense. Ora in molti sostengono che sia venuto il momento di ripensare al quadro e di prevedere obblighi più stringenti per le piattaforme con riferimento a contenuti d’odio, in violazione del diritto, ad esempio di proprietà intellettuale, e illeciti. Non è un processo facile: le piattaforme hanno oggi una potenza economica enorme, ma l’idea che possano essere considerate “giudice di primo grado” anche nell’ambito della gestione dei contenuti d’odio pone non pochi problemi giuridici. La proposta di Regolamento del dicembre scorso ha aperto probabilmente la via alla co-regolamentazione.
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