Il più grande sbaglio che si possa fare è cercare di asservire la natura alla nostra visione del mondo. Eppure è un errore comune, che commettiamo spesso anche senza accorgercene.
Di recente in un giardino zoologico nel sud del Giappone si è verificato un evento eccezionale: una femmina di macaco giapponese, chiamata Yakei, è diventata il capo del suo branco.
I macachi giapponesi hanno una struttura sociale molto rigida e gerarchica al cui vertice, quasi sempre, c’è un maschio. È raro che il ruolo di leader sia assunto da una femmina. Forse non è un caso che Yakei mostri atteggiamenti tipici dei maschi dominanti: secondo la testimonianza di una guida del parco, cammina spesso con la coda sollevata ed è più aggressiva della maggior parte degli altri esemplari.
Storicamente, le caratteristiche necessarie per assumere ruoli di potere, anche tra gli esseri umani, sono state quelle associate alla mascolinità: aggressività, determinazione, sicurezza di sé. Molte volte la ragione per questo dato è stata individuata nella natura: tra i primati, nostri antenati diretti, il gruppo fa affidamento su un maschio dominante, e sarebbe quindi naturale che le società umane siano organizzate allo stesso modo. Una storia come quella di Yakei sembrerebbe confermarlo: nel caso eccezionale in cui una femmina diventa leader, ciò accade per l’adozione di tratti e contegni maschili.
Eppure, in una luce diversa, la storia della macaca che si fece re si potrebbe leggere come una favola di riscatto in cui una femmina dalle doti straordinarie prevale sul dominio maschile. Spesso ci appelliamo all’ordine naturale delle cose per giustificare lo status quo nelle società umane, ma la natura è molto più varia di come ci piace immaginarla. Se tra molti primati è comune che sia un maschio ad assumere il potere in un gruppo, ce ne sono altri – ad esempio i lemuri e i bonobo – che sono organizzati in società matriarcali. Così in molte altre specie.
Quando diciamo che qualcosa è naturale, implicitamente stiamo associando la natura ad uno standard di moralità. Ciò che è naturale sarebbe giusto o buono. Ma la natura è moralmente neutra, non distingue fra bene e male, giusto o sbagliato. In essa non esistono premi e punizioni, solo cause ed effetti. Fra gli eventi naturali ci sono il cancro, la peste, i virus letali, gli uragani, le siccità, le inondazioni, i terremoti. Invece non sono naturali: l’aspirina, gli antibiotici, le terapie contro il cancro, i defibrillatori, i computer, le automobili, gli aerei, gli occhiali, i vaccini, gli antivirali.
Quando ci appelliamo alla natura per determinare cosa sia giusto o sbagliato stiamo – non sempre consapevolmente – impiegando una fallacia. Le fallacie sono vizi di ragionamento che invalidano un’argomentazione. Esse impediscono a un discorso di progredire logicamente, e di fatto lo rendono inutile. La pratica delle fallacie è in molti casi come barare al gioco: deliberata e truffaldina, una tattica retorica usata per vincere un dibattito violandone le regole. Rientrano nella categoria anche molti errori logici che a tutti capita di fare, inconsapevolmente, discutendo in contesti pubblici o situazioni di vita quotidiana.
La fallacia dell’appello alla natura o al cosiddetto “diritto naturale” è molto praticata nelle controversie su temi etici. Un espediente tipico dei dibattiti su questioni come unioni fra persone dello stesso sesso, adozioni, forme di fecondazione assistita. Il concetto di fondo è che, per esempio, l’omosessualità sarebbe “contro natura” e da ciò eriverebbe l’inammissibilità ei matrimoni fra persone dello stesso sesso. Si tratta di una manipolazione fondata su ignoranza e miopia culturale.
Quanto alla non naturalezza dell’omosessualità, sarebbe sufficiente richiamare gli studi sul comportamento animale da cui si apprende che pratiche omosessuali sono diffuse, dunque naturali, fra i cani, i gatti, i cigni, i gabbiani, le anatre, i pinguini, i delfini, i leoni, gli elefanti e molte altre specie. Ma più in generale l’idea di un valore incondizionatamente positivo attribuito alla natura in quanto tale rivela una prospettiva ideologica e regressiva. Il modo in cui le cose sono, in natura o per tradizione, non è necessariamente il modo in cui devono essere.
In un’antica parabola indiana, degli uomini ciechi scoprono che in città c’è uno strano animale. Si tratta di un elefante ma nessuno dei ciechi ne ha mai sentito parlare. Decidono di cercarlo e quando l’hanno trovato iniziano a toccarlo per capire che forma abbia. Il primo, avvicinandosi alla proboscide, conclude che l’animale assomiglia a un grosso serpente. Al secondo, che ha toccato l’orecchio, sembra un enorme ventaglio. Un altro, che si è appoggiato alla gamba, pensa che l’elefante sia simile a una colonna. Il quarto, che si è scontrato con il fianco, immagina che l’animale sia come un muro.
Il modo in cui interpretiamo la natura e la morale è spesso poco più di un riflesso delle nostre convinzioni, a volte fallaci. Qualcosa che ci rende come ciechi e incapaci di ragionare, comprendere, concepire nuove idee.
Torna in mente, a questo proposito, una celebre frase di Marcel Proust: “Il vero viaggio di scoperta non è nel cercare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi”.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
© Riproduzione riservata