Estela Barnes de Carlotto ha compiuto 90 anni ed è la presidente delle Nonne di Plaza de Mayo, che da decenni lottano in Argentina per ritrovare i nipoti scomparsi durante la dittatura (1976-83). «Oggi cammino male e mi aiuto con il bastone. Questo bastone è il simbolo che non ci mettiamo mai in ginocchio, camminiamo sempre a testa alta»
Cammina adagio e per farlo si aiuta con un bastone. Lo fa con orgoglio: «Questo bastone è il simbolo che non ci mettiamo mai in ginocchio, camminiamo sempre a testa alta». È in questa immagine che c’è tutta la forza di Estela Barnes de Carlotto, classe 1930, argentina. È la presidente dell’associazione Nonne di Plaza de Mayo, un gruppo di donne coraggiose che da 43 anni portano avanti una battaglia, senza sosta, con ostinazione, per ritrovare i tanti, troppi nipoti “rubati” durante l’ultima dittatura argentina (1976-1983).
Chi è Estela Barnes de Carlotto?
Estela de Carlotto è una donna argentina, con i suoi 90 anni di età, a cui è toccato portare avanti una battaglia non pensata, non voluta, non desiderata, però necessaria, come conseguenza della dittatura civile-militare che ha preso il potere in Argentina il 24 marzo 1976. Estela è una donna comune che si è trasformata in una lottatrice. Ha sempre avuto un’indole un po’ battagliera, ma non avrebbe mai immaginato di passare 43 anni della sua vita in una lotta pacifica, ma molto determinata, portata avanti insieme alle altre compagne per far sì che ciò che è accaduto non torni a manifestarsi.
Come era Estela da giovane?
A quel tempo le donne avevano un compito imposto, quello di essere madri, prendersi cura dei figli, del marito e della casa. Io fui subito ribelle da questo punto di vista, ho studiato, mi sono diplomata e sono diventata una maestra. Ho insegnato per 28 anni in diverse scuole della provincia di Buenos Aires.
E poi cosa è successo?
Ho detto addio alla mia carriera da insegnante per potermi dedicare completamente, 24 ore al giorno, alla ricerca di mia figlia Laura, che in quel momento aveva 23 anni, ed era stata sequestrata dai militari. Non era la prima dittatura in Argentina, ma nessuna era stata mai così feroce. Ed io mi sono trovata a viverla da madre; l’amore di madre mi ha dato la forza. Questa forza che tiriamo fuori, noi donne, quando dobbiamo salvare un figlio o una figlia. Ed ecco che esce fuori la leonessa che c’è in te, ecco le unghie e gli artigli, pronti a combattere.
Una battaglia che, almeno all’inizio, ha combattuto da sola…
Sì. Il primo ad essere sequestrato fu mio marito Guido, figlio di italiani, un gran lavoratore. Rimase prigioniero in un campo di concentramento. Non era un centro come Auschwitz, ma un commissariato dove, apparentemente, i militari facevano il loro addestramento. In realtà, in quei luoghi venivano portate le persone per essere torturate, interrogate fino allo stremo per tirargli fuori tutte le informazioni, e poi assassinate. Guido rimase lì dentro per 25 giorni. Alla fine, riuscii a liberarlo pagando un riscatto.
Cosa succede invece a sua figlia Laura?
Quando l’hanno catturata aveva 23 anni, militava nella Gioventù Universitaria Peronista ed era incinta di tre mesi. Era pericoloso uscire per strada a cercarla, potevano ucciderti. Ma a me non importava, non avevo paura. E come me c’erano tante altre mamme in strada, intente nella stessa ricerca. Così abbiamo deciso di unirci, per proteggerci e sostenerci a vicenda. Abbiamo iniziato a riunirci a Plaza de Mayo, di fronte al Palazzo del Governo, dove erano i dittatori. La nostra visibilità iniziò in quel momento. Come simbolo scegliemmo un fazzoletto bianco, era il nostro segno di riconoscimento.
Perché solo donne?
Perché avevamo davanti una società machista. Agli occhi dei dittatori gli uomini erano quelli pericolosi, le donne no, erano solo delle esaltate. Ci hanno lasciato fare perché pensavano che ci saremmo stancate in fretta e avremmo smesso di dare fastidio. Alcuni dei nostri mariti, compagni, fratelli venivano lo stesso. Si nascondevano dietro agli alberi della piazza per non farsi vedere. Ma noi, quando ce ne accorgevamo, li mandavamo via. Non volevamo perderli, erano loro il male, i ricercati, noi eravamo solo pazze agli occhi dei militari. Ed avevano ragione, in un certo senso: eravamo pazze di dolore, ma ancora di più di amore. Mi preme sottolineare che nella nostra lotta non c’è spazio per l’odio, non vogliamo né rivincita né vendetta. Vogliamo giustizia, e questa giustizia ancora non è arrivata. Sono passati 43 anni.
Quanto è importante non dimenticare?
È fondamentale tenere alta la voce perché, se si dimentica, la Storia si ripete. Ci sono tre parole che segnano il nostro cammino: memoria, verità e giustizia.
Cosa succede il 5 agosto del 2014?
È stato il giorno più bello della mia vita, il giorno in cui ho ritrovato mio nipote. Ho recuperato anni di vita, mi sono sentita più giovane. Quando l’ho visto è stata un’emozione incredibile. Ho sempre pensato che assomigliasse a mia figlia, invece ha ripreso da suo padre. È cresciuto nelle campagne, con gli animali, in completa solitudine, con genitori ignoranti. Eppure lui aveva questa indole da musicista e l’ha portata avanti, nonostante tutto: ha studiato musica a Buenos Aires ed è diventato un musicista. Non riusciva a capire da dove nascesse questa sua passione. Ora lo sa: nella nostra famiglia ci sono tanti artisti.
In questi anni siete riuscite a ritrovare 130 nipoti. Nipoti “rubati” dall’ultima dittatura argentina. Qual è la reazione di un nipote quando scopre di essere stato ingannato per una vita intera?
Dietro ognuno di loro c’è una storia individuale e non va mai dimenticata. Ci sono anche delle similitudini, purtroppo. Molti, ad esempio, sono stati rubati dagli assassini dei loro genitori. Sono stati cresciuti da questi militari e considerati alla stregua dei bottini di guerra. Il messaggio era chiaro: «Con la forza mi prendo tutto di quella persona, persino la sua creatura». Sono cresciuti tra maltrattamenti e violenze di ogni tipo. Sono bambini, ragazzi, oggi uomini che hanno tanto odio e tanta vendetta dentro, purtroppo.
E quelli sequestrati dopo esser già nati?
Loro sono stati i primi che abbiamo ritrovato perché conservavano qualche ricordo. Noi riempivamo i muri delle città con le loro foto, a volte capitava che le persone li riconoscessero e ci indicavano dove trovarli. Per quelli nati nei campi di concentramento, invece, è stato tutto più difficile. Non sapevamo il giorno di nascita, se fossero maschi o femmine. A chi potessero assomigliare. Non sapevamo niente di loro. Era come cercare un ago in un pagliaio.
Cosa avete fatto?
Iniziammo a recuperare delle informazioni. A volte c’erano delle insegnanti che ci segnalavano comportamenti ambigui, di bambini che venivano portati e ripresi da scuola come fossero prigionieri. Così andavamo fuori dalle scuole, li spiavamo dietro un albero e, se trovavamo qualche somiglianza, andavamo a fondo. Era una ricerca dell’amore, però senza un senso. Perché non potevamo andare da un giudice e dirgli: «Questo sembra mio nipote». I giudici volevano le prove e noi non le avevamo.
Quando arrivarono “le prove”?
Arrivarono da un’intuizione. Un giorno uscì un articolo nel quale si parlava di un padre che negava la paternità, fu obbligato a comparare il suo sangue con quello del suo presunto figlio e risultò positivo: era legittimo. La parola “sangue” fu rivelatrice. Il problema però è che il sangue dei genitori nel nostro caso non c’era, erano desaparecidos appunto. Avevamo il nostro di sangue, quello delle nonne, quello dei familiari. E così iniziammo a viaggiare, per capire se esistesse qualche metodo specifico per determinare la filiazione di un bambino in assenza dei genitori. Erano i primi anni Ottanta: in Italia, in Francia, in Svezia gli scienziati scossero il capo. Nel 1982 andammo negli Stati Uniti, parlammo con scienziati e luminari, ci promisero che avrebbero studiato il nostro caso. Nel 1983 organizzarono un Congresso Internazionale di Genetica e Antropologia a New York, il tema da dibattere era affine alla nostra richiesta. E arrivarono a una conclusione positiva per la nostra causa.
È così che nasce l’“Indice di Abuelidad” (letteralmente “indice di nonnità” n.d.r.), vero?
Sì, permette di arrivare a una percentuale del 99,9% di certezza attraverso specifiche analisi del sangue. E non solo. Nel 1984, parallelamente all’inizio della democrazia, nasce in Argentina qualcosa di unico: una Banca Nazionale di Dati Genetici a disposizione delle Nonne di Plaza de Mayo per l’identificazione dei nipoti. Gli studi sul Dna hanno subito una grossa accelerazione grazie alla nostra lotta. Oggi sono all’avanguardia e tutto è nato dall’amore di alcune nonne che non chiedevano altro che poter riabbracciare i propri nipoti.
Estela, lei ha festeggiato 90 anni ad ottobre: pensa mai alla morte? Le fa paura?
Sì, mi fa paura. Ho una personalità combattiva, ho sempre lottato contro tutto nella mia vita, contro la morte però non si può lottare. Arriva e basta. Tante delle nostre nonne oggi non ci sono più. Siamo rimaste in poche, un numero così piccolo che non basterebbe neppure per formare la commissione direttiva dell’associazione. È per questo che, già da molti anni, abbiamo cambiato il nostro statuto, consentendo l’ingresso ai nipoti ritrovati, ai familiari, ai giovani interessati alla nostra battaglia. Così da poter integrare la commissione. Li abbiamo formati pian piano, abbiamo impartito loro lezioni e adesso conoscono tutto. Sanno come parlare, sanno con chi parlare. Ci accompagnano, giorno per giorno, in questo cammino. E ci dà una grande tranquillità sapere che, il giorno in cui non ci sarà più nessuna di noi, loro porteranno avanti la nostra lotta, continuando a cercare i nostri nipoti desaparecidos.
Il lavoro continua anche da casa
Dallo scorso marzo Estela è chiusa in casa per via del Coronavirus. Ma il lavoro suo e delle altre nonne non si è mai fermato: «Facciamo riunioni tutto il tempo, portiamo avanti le nostre ricerche. Io non so usare il computer e non voglio imparare: sono una maestra con carta e penna. Ma ci sono i miei nipoti qui con me e mi aiutano. Le nonne non vanno mai in vacanza, neanche il Covid-19 può fermare la nostra lotta», afferma con decisione. Il 22 ottobre 2020 ha compiuto 90 anni e ha festeggiato, virtualmente, con i suoi amici più cari. Molti si sono connessi dall’Italia. Come Jorge Ithurburu, coordinatore della “Rete per l’Identità-Italia” e dell’organizzazione “24marzo.it”, a cui lei è molto legata. Intanto, il primo febbraio 2021, Estela ha ricevuto la sua prima dose di vaccino contro il Coronavirus.
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