Vincenzo Mingacci.
Pensionato, ex dipendente Eni, ex profugo della Libia rientrato in Italia nel 1970. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Livorno.
Premessa
Questa è una parte della storia della mia famiglia dagli inizi del 900, una storia di emigrazione verso l’America prima e l’Africa poi fino al forzato rientro in patria, sempre alla ricerca di un posto sicuro dove vivere e prosperare serenamente. Una storia purtroppo che ancor oggi si sta riproponendo ma con protagonisti i popoli africani costretti a lasciare le loro terre in cerca di un futuro migliore altrove.
Anno 1911, l’Italia dichiarava guerra alla Turchia occupando la Libia. Una volta stabilizzata tutta la fascia costiera che comprendeva le due regioni della Tripolitania e Cirenaica, il governo italiano per favorire la colonizzazione delle terre occupate così come era già successo per i territori dell’Africa sud orientale, aveva incentivato anche per la Libia l’offerta di terreni ancora vergini da coltivare. In tutta Italia ed in particolare al sud, l’offerta era stata accolta con entusiasmo ed intere famiglie si preparavano a partire per una nuova epopea. Poteva quell’animo inquieto del nonno Francesco dopo aver tentato inutilmente per ben 12 anni di farsi una vita in America lasciarsi scappare questa nuova occasione di rivincita contro un destino che lo voleva sottomesso alla miseria? Siamo intanto arrivati al 1934 ed alcune famiglie di quel paese del profondo sud d’Italia in provincia di Catanzaro, che già si conoscevano decidono di unirsi e partire assieme. Fu così che il nonno che poteva già contare nella sua famiglia sull’aiuto dei due figli maschi già grandicelli, papà aveva 18 anni e zio Luigi lo seguiva a ruota , partecipa al bando di assegnazione delle terre in nord Africa , viene accettata la sua richiesta e come da programma del governo, vengono prima mandati tutti i capifamiglia sul posto per collaborare insieme alle maestranze specializzate a costruire i nuovi villaggi che poi riceveranno le famiglie al completo. La regione prescelta era la Cirenaica, la parte orientale più verde e con migliori possibilità di agricoltura di quell’enorme scatolone di sabbia che a quei tempi era considerata la Libia. I villaggi erano costituiti da abitazioni generalmente ad un solo piano con la chiesa, lo spaccio, l’ufficio del podestà, l’ambulatorio con l’abitazione del dottore, l’ufficio postale, la caserma dei carabinieri, il tutto secondo lo stile popolare fascista di allora. Ad ogni gruppo familiare era assegnata una casa, contrassegnata da un numero, con abbinato un podere in zona, dell’estensione di circa 30 ettari. Alcune case erano singole con piano terra adibito a cucina e soggiorno e le camere da letto al primo piano, probabilmente riservate ai vari responsabili del villaggio come il podestà, il maresciallo dei carabinieri ecc. le altre invece destinate ai civili erano appartamenti accoppiati a due a due su un unico piano con ognuno una grande cucina e due o tre camere ed un piccolo gabinetto all’esterno, dietro si trovava la stalla, il pozzo ed un forno in comune alle due abitazioni. Un lastricato sul davanti delle abitazioni serviva a raccogliere l’acqua piovana in una cisterna interrata al centro. Non c’era corrente elettrica almeno all’inizio perché le centrali elettriche erano ancora in fase di costruzione e venivano usati lumi a petrolio e candele. Insieme alla casa ed al podere il governo assegnava anche gli animali, un paio di buoi per arare la terra, cavalli, asini, mucche, maiali e soprattutto pecore e capre. Tutto era disciplinato da un contratto che i coloni sottoscrivevano col governo, nel quale si impegnavano per 5 anni a condurre l’attività cedendo in cambio la parte dei prodotti eccedenti il proprio fabbisogno soprattutto grano destinato all’Italia, andando così a scalare su quello che era il loro debito pattuito con lo Stato. I coloni ricevevano anche un sussidio in danaro che serviva loro per comprare negli spacci governativi quei generi di prima necessità di cui essi non potevano disporre autonomamente come il petrolio per l’illuminazione, le sementi, gli attrezzi agricoli ed altro. In Italia un anno dopo quindi, in paese, nell’estate del ’35, in una calda mattina d’agosto, salutati dall’assordante stridìo delle cicale sparse nei campi di grano della vallata, alcuni grossi carri trainati da coppie di cavalli portano i futuri coloni alla stazione della ferrovia Calabro-Lucana di Petilia Policastro per imbarcarsi sulla littorina che li avrebbe portati a Crotone e da li col treno a vapore a Siracusa. A Siracusa il giorno dopo i controlli e il censimento, tutti i gruppi familiari furono imbarcati su quella grande nave bianca che vedevano tutti per la prima volta e che li avrebbe portati in Africa. La mattina seguente lasciato il porto fra gli applausi delle autorità e dei residenti, la banda che suonava le marcette e gli sventolii di bandierine la nave fece rotta verso la Libia dove la sera dopo buttò le ancore nella rada di Bengasi. In rada i coloni dopo l’ennesimo censimento e l’appello di tutti i gruppi familiari furono sbarcati con una serie di barconi che facevano la spola fra la nave e la banchina quindi divisi per gruppi vennero avviati ai vari villaggi di destinazione con una colonna di camion militari. Era il 15 agosto del 1935. Durante il viaggio verso la destinazione finale il paesaggio ora era mutato, non più biondi campi di grano ed il canto delle cicale ma distese di sabbia e nugoli di mosche fastidiose che si appiccicavano sulla pelle sudata, un caldo torrido, alte palme dondolanti cariche di datteri gialli e grossi animali con un lungo collo ed una grossa gobba che di tanto in tanto apparivano a lato della pista fra la polvere e la sabbia alzata dalla colonna dei camion. I dromedari avanzavano lentamente ondeggiando in colonna uniti gli uni agli altri con una corda che serrata alla coda del primo veniva legata al collo del successivo, carichi di sacchi e mercanzie varie, guidati dai carovanieri avvolti in lunghi barracani bianchi, che li sopravanzavano nella sabbia a piedi nudi. E così dopo alcune ore di viaggio la nonna ed i figli raggiungono nonno Francesco nel villaggio a loro destinato , Giovanni Berta. Consumato un pasto frugale si sistemarono tutti alla bell’e meglio nei giacigli già preparati e stanchi morti sprofondarono in un sonno profondo incuranti dei guaiti degli sciacalli che sentito odore di cibo si erano avvicinati e si aggiravano intorno alle case. La mattina di buon’ora uscirono tutti per conoscere i vicini di casa, in tutto erano arrivate dodici famiglie provenienti dalle più varie regioni d’Italia, Marche, Abruzzo, Sicilia , Veneto, Calabria e tutti per farsi capire si sforzavano di parlare un Italiano approssimativo quando il dialetto diventava incomprensibile. Papà e la mamma secondo gli accordi fra le famiglie che decidevano per loro, si sposano alla fine del ’35 e Francesco, il primo dei quattro figli, mio fratello, che prende il nome del nonno paterno nasce nell’ottobre del ’36. Nemmeno un mese dopo la nascita del primo nipote nonno Francesco muore nel novembre del ’36 a 44 anni per una peritonite. Finisce così la vita avventurosa di un pioniere, uomo forte e determinato che non aveva mai avuto paura di cercare ed affrontare il suo destino. L’inizio del ’37 fu segnato nei villaggi, dai preparativi per la visita di Mussolini. Tutti i ragazzi, a seconda dell’età, erano inquadrati nei vari reparti; i più piccoli dai sei agli otto anni erano i “figli della lupa”, dagli otto ai dodici anni c’erano i “balilla”, dai dodici ai sedici “giovani avanguardisti” e infine dai sedici ai diciannove “giovani fascisti” tutti in divisa, erano costretti a marciare, a fare ginnastica, a cantare gli inni classici tipo “faccetta nera” o “giovinezza “. E finalmente il ventisette marzo del ’37 Mussolini arrivò. All’ingresso del villaggio fra due aloni di giovanissimi fascisti in divisa, accompagnati dall’incalzare delle marcette militari fra uno sventolio di bandierine ed alla presenza delle autorità locali al grido di “a noi ! ”, il duce fece il suo ingresso trionfale seguito da un codazzo di impettiti gerarchi ed ufficiali. Salito su di un grosso trattore messo al centro della piazza il duce mano sul fianco e petto in fuori brandendo un grosso megafono fece il suo bel discorso e dopo la messa officiata nella piazza del villaggio, croce di merito col nastrino azzurro a tutti e quindi una doverosa visita ai coloni nelle loro case. E qui la mamma lo aspettava… “ ma quando viene gliene voglio dire quattro” aveva anticipato. Dirne quattro a Mussolini? Papà e gli altri cominciavano ad essere preoccupati , “Cecilia non fare la scema, muta devi stare”. Ma lei ricordava sempre con un certo orgoglio l’incontro col duce, le sue domande su come andava e lei che non le mandava a dire a nessuno e tantomeno a “lui” colse la palla al balzo per sciorinare una sequela di lamentele che ormai erano diventate un classico: “Eccellenza qui combattiamo tutti i giorni con gli sciacalli, il caldo, il ghibli e i predoni arabi e la vita è dura …”, bè in realtà per predoni si intendeva dire di qualche beduino che si avvicinava ai villaggi di notte per portare via una gallina o un capretto nel peggiore dei casi, ma la parola predoni faceva un certo effetto, così “sua eccellenza” bofonchiando qualche parola di solidarietà ed incoraggiamento, si frugò nella giubba grigioverde piena di medaglie e mise nelle mani di mia madre una manciata di monete. Anche il piccolo Francesco ebbe il suo momento di gloria quando prese un rimbrotto bonario ed uno scappellotto dal duce per non aver teso bene il braccio nel fare il saluto fascista. Esattamente un anno dopo la visita di Mussolini , il venti maggio del ’38, si ripropose lo stesso balletto dei preparativi per i grandi eventi: la visita del re Vittorio Emanuele III detto “sciaboletta”. Anche qui solito copione, coloni vestiti a festa con i costumi regionali, carri allegorici trainati da coppie di buoi, bandiere e grandi coccarde tricolori, discorsi, visite di cortesia, pacche sulle spalle, medagliette e tanti incoraggiamenti e sempre viva il re e viva l’Italia. Verso la fine del ’39 si comincia a sentir parlare di guerra, la Germania invade la Polonia e dà praticamente inizio alla II guerra mondiale ed anche in Libia si vede un gran movimento di militari. Lunghe colonne di mezzi militari carichi di soldati tedeschi ed italiani passano dai villaggi e si dirigono verso il vicino confine egiziano occupato dagli inglesi. La grossa radio Marelli dei vicini di casa intanto era diventata il principale punto di aggregazione e sebbene le notizie confermavano che tutto andava bene secondo le migliori tradizioni della propaganda fascista, verso i primi giorni di gennaio del ’41 si cominciava a vedere che sulla strada principale che passava in mezzo al villaggio ed andava verso il fronte, il traffico dei mezzi militari italo-tedeschi era tutto diretto in senso inverso, solo pochissimi mezzi erano diretti verso il confine egiziano. Ben presto, nel giro di pochi giorni la ritirata dei militari italiani finì, le strade tornarono deserte ed una strana sensazione di attesa mista a terrore calò nei villaggi e sulle case dei coloni rimasti ad aspettare gli eventi. Le strade del villaggio erano deserte, l’attività nei campi si era ridotta e l’attenzione dei coloni si era rivolta al solo governo delle bestie. Una mattina uno sferragliare di carri ed il rombo delle camionette svegliò i coloni e gli inglesi entrarono pacificamente nel villaggio, presero possesso della caserma ormai deserta dei carabinieri dove installarono il comando e cominciarono ad andare per le case a domandare se qualcuno aveva armi da consegnare o se vi era ancora qualche soldato nascosto. Le donne alla vista dei soldati indiani col turbante in testa scuri di pelle , sud africani e neri sudanesi erano sparite dalla circolazione per la paura ma non ci furono episodi di violenza. Si instaurò un certo clima di reciproca sopportazione fra i coloni e gli occupanti e grazie anche al fatto che essendo molti di quelli, reduci da precedenti viaggi in America, la comprensione della lingua non era diventata il problema più grande, forse i più esuberanti fra i militari erano gli australiani, qualche volta ubriachi, ma i coloni sapevano come tenerli a bada regalando loro qualche uovo o al massimo una gallina. A questo proposito gli zii raccontavano di un episodio accaduto un giorno in cui gli uomini di casa erano tutti al lavoro nei campi , episodio tenuto sempre nascosto e di cui nessuno aveva parlato mai fino ai tempi più recenti del dopoguerra. Una mattina un soldato australiano in cerca di qualcosa di buono per se e per il suo reggimento, si era avvicinato col suo camioncino militare alle abitazioni dei coloni ed aveva incominciato a curiosare fra le stalle per vedere se riusciva a portare via qualche animale. Per l’appunto proprio in quel momento la nonna Rosaria era intenta a ripulire la stalla dei maiali quando si presentò il militare che forse anche un po’ alticcio cominciò a fare strani discorsi. Qui ora non si sa bene come andarono realmente i fatti perché la nonna non ne volle mai parlare, forse il militare si voleva portare via un maiale o peggio ancora e questa sembrò la versione più probabile, aveva tentato di violentarla, sta di fatto che nonna Rosaria donna di poche parole ma sempre pronta a tutte le situazioni tirò fuori dal lungo grembiale nero un vecchio revolver che il nonno si era procurato in America e che lei portava sempre con se quando restava sola in casa e fece un bel buco in pancia all’australiano, poi corse in campagna a chiamare gli uomini. Certo erano tutti un po’ disperati, se fossero venuti gli inglesi a cercare il loro compagno mandato a fare provviste e l’avessero trovato li morto sarebbero stati guai grossi per tutti, per cui decisero in fretta e furia di mettere in atto quella che poteva essere stata una situazione ideale. Portarono la camionetta dell’australiano sul ciglio della strada , misero il corpo del militare al posto di guida e con la grossa mitragliatrice lasciata dai nostri militari e che tenevano sempre nascosta e qualche volta avevano già adoperato per difendersi dagli arabi, spararono una raffica sul parabrezza, sporcarono per bene l’interno di sangue, poi presero il soldato e lo sotterrarono in una buca bella profonda li vicino dopo avergli levato le mostrine il portafogli e quanto aveva in tasca. Ora non restava altro che attendere gli inglesi e dire loro che un aereo tedesco di passaggio, e ne passavano tanti sia di tedeschi che inglesi, aveva mitragliato il mezzo che passava di li e loro avendo assistito alla scena da buoni cristiani avevano dato sepoltura al militare recuperando i suoi documenti a testimonianza della sua identità. E così avvenne, la mattina dopo arrivarono i soldati inglesi alla ricerca del loro commilitone e dato che non avevano motivo per non farlo, vista la scena che si presentò ai loro occhi, credettero al racconto di quei quattro contadini ringraziandoli anche per l’opera misericordiosa che avevano fatto ricompensandoli pure con qualche tavoletta di cioccolato ed alcune razioni militari di carne in scatola. L’occupazione inglese durò qualche mese, poi le truppe italo-tedesche tornarono a rioccupare i territori perduti e si attestarono nuovamente ai confini con l’Egitto. Ma ancora una volta la tregua non durò molto, stava passando l’estate e gli inglesi si preparavano ad una controffensiva. La situazione era tornata fluida, nuova rioccupazione inglese e nuova ritirata degli italiani fin quando verso la fine del ’41 essendosi l’occupazione inglese attestata nella regione cirenaica, i civili italiani in particolare donne, vecchi e bambini iniziarono a sfollare non vedendo soluzioni immediate e positive allo svolgersi della guerra. La mamma, già in cinta di Giuseppina, fu imbarcata su un trimotore SIAI Marchetti S.M. 79, aereo da trasporto e bombardamento, insieme agli altri due figli, Francesco e Rosaria, la nonna Rosaria e le zie, figlie della nonna. Gli aerei che partirono quel giorno da Tobruck alla volta dell’Italia, carichi di coloni furono due, ma solo uno arrivò in Italia all’aeroporto di Lecce. La mamma raccontava di quel viaggio pauroso, del freddo patito durante il volo, l’odore acre della polvere da sparo, il rumore assordante dei motori e della mitragliatrice mentre il mitragliere dal cupolino della sua postazione sparava all’impazzata per difendere l’aereo dall’attacco degli Spitfire inglesi che si avventavano come squali sulle prede e la disperazione all’arrivo nel sapere dell’abbattimento dell’altro aereo e la perdita di tanti amici. Finita la guerra la Libia fu amministrata temporaneamente dagli inglesi fino al momento in cui ne fu dichiarata l’indipendenza all’inizio del ’52.