Vincenzo Mingacci. Pensionato, ex dipendente Eni, ex profugo della Libia rientrato in Italia nel 1970. Partecipa al Concorso 50&Più per la seconda volta, nel 2022 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa. Vive a Livorno.
Fu nel ’59, quando avevo appena compiuto 10 anni che venni in Italia per la prima volta. Papà aveva vinto un terno al lotto, erano circa cento sterline, e fu per quello, ma non solo, che decise di mandarci in Italia a conoscere i parenti, mamma io e le mie due sorelle nati tutti laggiù. Vivevamo in Libia, dove i miei erano emigrati nel ’35 come coloni perseguendo il sogno di tanti italiani di sfuggire finalmente alla miseria. Passata la guerra i miei si erano trasferiti dalla Cirenaica, dove erano stati mandati a coltivare le terre, a Tripoli dove papà aveva iniziato a lavorare come muratore. C’era la possibilità per noi italiani residenti in Libia di poter portare in Italia, una volta l’anno 350 sterline libiche (più o meno 600.000 lire di allora) a persona e quindi con i primi risparmi i miei come ormai facevano tutti, cercavano di trasferire in Patria ciò che potevano per assicurarsi la possibilità di comprare una casa una volta rimpatriati. Partimmo da Tripoli a bordo di un quadrimotore “Caravelle” dell’Alitalia ed atterrammo a Catania. Per me a dieci anni di età, che non avevo mai visto fiumi, montagne, boschi, treni, abituato alle polverose e calde stradine di periferia di Tripoli, quel primo viaggio fu davvero impressionante. La prima tappa del viaggio ci portò in Calabria a conoscere i parenti. Il ferry boat a Messina, il treno a vapore della ferrovia Calabro-Lucana col fumo denso che invadeva i vagoni, tutto per me era una novità. Stavo sempre affacciato al finestrino giorno e notte a godere di quello spettacolo della natura che non avevo mai immaginato prima. Ero affascinato da quei panorami che scorrevano veloci, le luci notturne delle case dei paesini sparsi fra i contorni scuri delle montagne che si confondevano con il brillare delle stelle, le brevi soste nelle stazioni dove scendevo di corsa a bere alle fontanelle, annusavo i profumi della notte che cambiavano continuamente, ora di zagara ora dei boschi, tutto era magico. Chissà se quelle mie furono le stesse sensazioni che aveva provato papà quando più o meno alla mia stessa età era partito dal villaggio di minatori in America dove lo avevano portato i nonni ancora neonato nel 1913 ed era anche lui poi uscito improvvisamente a vedere il mondo attraversando l’Atlantico per rientrare in Italia. Per uno strano scherzo del destino si stava ripetendo la stessa storia? Due bambini cresciuti all’estero in periodi diversi ma non certo facili partivano finalmente per andare a conoscere quell’Italia di cui avevano tanto sentito parlare in famiglia. Arrivati a Crotone prendemmo la corriera per Petilia il paese dei miei ai piedi della Sila, dove ci aspettava un nugolo di parenti in festa e ci stabilimmo al “castello” a casa della nonna Maria. La casa consisteva in un unico stanzone al primo piano di un vecchio caseggiato chiamato proprio il castello, in fondo ad un lungo ballatoio esterno. C’era un grande caminetto, un letto enorme col materasso di crine al centro della stanza, molto alte perché sotto c’era accatastata tutta la legna, non c’era né acqua corrente, né bagno ma uno scarico esterno sul ballatoio dove si vuotava il bugliolo dei bisogni. L’acqua si andava a prendere alla fontanella sotto casa, rispettando la lunga fila di donne e ragazzini, con una botticella di legno che veniva portata in bilico sulla testa su una ciambella di panno o tenuta sul fianco. In casa la botticella veniva posizionata su due ferri curvi infissi nel muro a mo’ di culla con sotto una bacinella. Appeso al soffitto un grande canniccio, “u cannizzu”, serviva a contenere parte dei cibi come forme di formaggio, forme di pane, soppressate, fasci di origano secco, pomodori secchi ed altro, tutto in quello stanzone era rimasto come ai primi del ‘900 come quando erano partiti per l’America. Appena libero dalle doverose visite ai parenti, mi divertivo a girare fra i vicoli del paese dove galline e grassi maiali giravano indisturbati. Con Nonna Maria fu amore a prima vista, per me vedere per la prima volta una nonna e sentire subito il suo affetto così come per lei conoscere il primo nipote fu una grande emozione. La nonna per tutti in paese era Maria l’Americana per via appunto del suo passato da emigrante e non solo, era ricordata anche per quell’episodio accaduto durante la guerra in Cirenaica quando sorpresa da sola nella stalla della casa colonica sparò ad un soldato australiano per difendersi da un tentativo di stupro. Me la ricordo con la bandana che le cingeva la testa e nascondeva una lunga treccia nera, sempre vestita di nero, scialle e grembiule con grosse tasche gonfie dove teneva di tutto.
Un giorno la nonna volle portarmi a “Scardiato” a raccogliere i fichi messi a seccare. Scardiato non era altro che quel pezzo di terra che il nonno Francesco, morto in Africa, aveva comprato ai suoi tempi tornato dall’America e che era rimasto abbandonato e incolto per tutti quegli anni. Si partì naturalmente a piedi al mattino presto perché il posto era lontano, in fondo alla vallata e c’era parecchia strada da fare, lungo il percorso incontravamo contadini a dorso d’asino che salivano verso il paese tirandosi dietro muli carichi di legna che avrebbero venduto nella piazza del paese, ma io ero incantato a guardare i boschi di castagni ed ascoltare lo scorrere dei ruscelli che incontravamo nel fresco della mattina odorosa d’erba. Arrivati sul posto la nonna aprì la porticina di una vecchia costruzione bassa, col tetto di vecchie tegole ricoperte di muschio. All’interno in un unico locale c’erano ammonticchiate un po’ dappertutto vecchie sedie impagliate, cassette, canestri, appesi alle travi del soffitto mazzi di peperoncini, origano, camomilla ed altre erbe aromatiche lasciate a seccare, in un angolo un grande caminetto affumicato pieno di cenere e resti di legna bruciata. Da una finestrella col vetro rotto filtrava un raggio di sole che illuminava al centro della stanza un vecchio tavolo ricoperto da uno spesso strato di polvere, sotto il tavolo un topolino si dibatteva imprigionato in una piccola gabbietta. La nonna sorrise, era contenta di avere preso quell’intruso che probabilmente rosicchiava le sue cose. Adesso “lo squadiamo” disse, accese il fuoco nel caminetto e mise su un pentolino d’acqua mentre io mi domandavo cosa volesse fare, quando l’acqua iniziò a bollire, prese la trappola ed il pentolino, uscì fuori e versò l’acqua bollente attraverso le maglie della gabbietta sul povero topolino che con uno squittio morì “squadato”, un rito crudele ma pratico per eliminare l’incauto roditore. All’esterno della casetta raccogliemmo i fichi messi precedentemente a seccare al sole su alcuni cannicci, erano tanti e lei li mise in due grossi panieri che portava uno sulla testa e l’altro appoggiato ad un fianco, a me diede da portare un panierino di fichi freschi ricoperto dalle foglie. Nonna Maria era una donna piccola e minuta, ma aveva una forza che mi stupiva, così con quel carico ci avviammo verso il paese attraverso i viottoli di campagna delimitati da alti muretti di pietre a secco e piante cariche di fichi d’india che maturi rotolavano a terra. A casa la nonna mi insegnò a fare le trecce di fichi secchi, prese otto lunghi steli di saggina che aveva già fatto seccare, li legò alla base ed iniziò ad infilare i fichi in cui aveva inserito una mandorla, intrecciandoli e sovrapponendoli bene in modo da fare una treccia larga circa una decina di centimetri e lunga più o meno un metro, poi li portammo al forno del paese per farli cuocere. Riuscì a fare tre di queste trecce, pesantissime e che trovarono posto in ciascuna delle nostre tre valige oltre a tutte le soppressate e forme di caciocavallo che ci avevano regalato gli altri parenti. Purtroppo, non rividi più nonna Maria, tutte le altre volte che tornammo in Italia ci si fermò solo a Roma e Livorno dai parenti della mamma, la deviazione per la Calabria era troppo lunga e faticosa. Avevo comunque avuto modo di vedere quella parte d’Italia che in quegli anni Cinquanta era rimasta ancora isolata dal resto del Paese, e da dove la gente ancora partiva per cercare fortuna ma questa volta al Nord e non più verso l’America o verso le Colonie d’Africa. In Libia tutto sommato si viveva ancora molto meglio, la miseria vista in Calabria ci aveva fatto riflettere, non era ancora il momento di rientrare in Italia. Ma le cose non andavano sempre bene, verso la metà degli anni Sessanta a seguito del conflitto arabo israeliano la situazione per tutti gli stranieri cominciò farsi sempre più pesante fino al colpo di Stato che portò Gheddafi al potere, tanti erano i segni di ostilità anche verso di noi ex coloni ed a quel punto era chiaro che per noi italiani non sarebbe stato più possibile sperare di continuare a vivere li anche se il lavoro non mancava. Fu così che l’ordine di andar via non tardò ad arrivare, qualcuno più previdente era riuscito all’inizio del 1970 a partire portando via i soldi e vendendo tutto, noi aspettavamo la fine dell’anno scolastico ed infatti in agosto ci fu proprio un esodo generale. Il Consolato italiano e la compagnia di navigazione Tirrenia furono presi d’assalto dalla gente che voleva partire a tutti i costi e così fummo tutti rimpatriati portando via le sole valigie, i mobili rimasti in casa e l’uscio aperto alla mercè degli sciacalli. Al porto fummo tutti perquisiti, uomini donne e pure i bambini per timore che portassimo via soldi o gioielli e si partì così, tutti a poppa della nave “Sicilia” col nodo in gola, guardando per l’ultima volta Tripoli, il suo bel lungomare orlato di palme e pieno di dolci ricordi mentre la sagoma scura del vecchio castello, spariva dietro la scia della nave, qualcuno con le lacrime agli occhi, altri più anziani con la rabbia di aver lavorato tutta una vita e vedere tutto perso, vanificato come dopo una tromba d’aria, un uragano che si porta via tutto, altri, noi ragazzi forse un po’ meno consapevoli dell’angoscia provata dai nostri genitori ma pieni di speranze e tante illusioni ma con la voglia di incominciare a vivere una vita normale in un paese che finalmente speravamo un po’ più normale. Era il 28 agosto 1970.