Atolli sommersi dalle acque, case distrutte, raccolti inondati dalle mareggiate. Pensavano che fosse una punizione degli antenati per le loro cattive azioni, gli abitanti di Carteret, quando si sono trovati davanti le isole che abitavano inghiottite dal mare. Sono arrivati a offrire animali in sacrificio e hanno rivolto preghiere al vento chiedendo una tregua. La risposta a quella devastazione non soffia nel vento ma nel cambiamento climatico, che pone al centro della cartina geografica questo gruppo di sei isolotti al largo della Papua Nuova Guinea. Nulla ha placato la furia del mare, neanche le barriere costruite davanti all’arcipelago che è stato spazzato via dalle tempeste.
Per quale motivo abbiamo raccontato questa storia? Perché, secondo l’Unesco, gli isolani di Carteret sono i primi profughi ufficiali causati dal riscaldamento globale. Tra le comunità più esposte all’innalzamento del livello del mare ci sono le Piccole isole del Pacifico che, paradossalmente, hanno contribuito in minima parte alle emissioni di gas serra (meno dell’1%). Si tratta di piccoli atolli o isole di barriera a forma di anello che si trovano a pochi metri sul livello del mare e proprio per questo sono particolarmente vulnerabili al clima che cambia. In questa parte del globo, così come in altre zone della Terra, il rischio del cambiamento climatico non è affatto una suggestione apocalittica, ma una realtà che spinge milioni di persone ad abbandonare le proprie case.
Ma chi sono i profughi del clima? Un esercito di esseri umani in fuga da catastrofi naturali, dalla perdita di territorio dovuto all’innalzamento del livello del mare, da siccità e desertificazione, da conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni hanno dichiarato che entro il 2050 si raggiungeranno tra i 200 e i 250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare il proprio Paese. Ma quand’è che un semplice migrante diventa “migrante climatico”? Solitamente il migrante è colui che decide di migrare per scelta di “personale convenienza”, per la ricerca di migliori condizioni di vita, materiali o sociali. I migranti ambientali, invece, sono persone spinte a partire perché non riescono a sopravvivere nel loro luogo d’origine, in quanto non hanno più accesso a terra, acqua, mezzi di sussistenza. E i dati su questo potenziale esodo climatico sono da allarme rosso. Secondo uno studio della Banca mondiale, gli effetti del cambiamento climatico in atto nelle tre Regioni più densamente popolate al mondo, provocheranno entro il 2050 migrazioni interne di 143 milioni di persone.
Ci sono aree più esposte a questo fenomeno come l’Asia centrale, dove problemi come la mancanza d’acqua comincia a provocare spostamenti di popolazioni che hanno delle conseguenze sull’economia locale, creano impoverimento e incentivano l’esodo. E poi l’Africa, che sarà sempre di più teatro di conflitti locali per l’accaparramento di terreni agricoli e di risorse come acqua ed energia, davanti a scenari di desertificazione, con oltre i due terzi delle aree oggi coltivate a rischio scomparsa. La FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) prevede che nella “cintura saheliana” tra il Niger e il Senegal, la produttività delle province rurali si ridurrà fino al 50% entro il 2050.
Ma non è tutto. Secondo diversi studi, l’innalzamento del livello dei mari potrebbe mettere in pericolo circa 150 milioni di persone. Se il tasso di emissioni di gas serra a livello globale rimarrà quello attuale, senza miglioramenti e impegni concreti, il rischio c’è e rimarrà alto. Parliamo di quelle città costruite su un livello medio del mare molto basso, o quelle soggette a una subsidenza importante come Venezia. Ma anche, la Laguna di Taranto, il Golfo di Oristano, la parte meridionale del nord Adriatico, sono tutte zone particolarmente sensibili.
E se domani i migranti climatici saremo noi?
Francesca Santolini, giornalista scientifica, saggista, divulgatrice ambientale. Collabora con il quotidiano La Stampa, dove scrive di ambiente, clima e sostenibilità e con la trasmissione Unomattina in onda su Rai Uno, dove si occupa di ambiente. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e radiofoniche intervenendo sui temi d’attualità legati all’inquinamento e al clima. Per Marsilio ha scritto “Passio Verde. La sfida ecologista alla politica” (2010), mentre per la casa editrice Rubbettino “Un nuovo clima. Come l’Italia affronta la sfida climatica” (2015) e “Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove andranno” (2019).
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