Tiziana Michelini. Pensionata da pochi anni ha finalmente il giusto tempo per coltivare antiche passioni come la fotografia e la scrittura. Partecipa al Concorso 50&Più per la terza volta; nel 2019 ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la prosa e nel 2020 la Farfalla d’oro sempre per la prosa. Vive a Carpi (Mo).
“…ma l’Emilia lo sa
come ridere il trenta di maggio
e sa come si fa
a mischiare paura e coraggio…”
(cit. L.M.)
Sapevo benissimo di cosa si trattava.
Era uno di quei momenti in cui le cose del mondo accadono senza una preparazione.
Sapevo che si trattava di qualcosa che avrei potuto controllare con la razionalità, ma questo avrebbe sminuito la connotazione inusuale, estranea, quasi magica di quel sentire.
Sapevo di cosa si trattava: avevo iniziato a farci caso quando ero ragazzina, alle scuole medie, tanti anni prima. Stavo lì, assorta, con la matita in mano davanti alla natura morta che il professore ci faceva copiare fino a che si creava un’armonia tra me e la mela lì davanti; un’armonia buona, intensa, che si impossessava di me, del mio cervello, della mia mano. E disegnavo senza decidere di farlo, disegnavo perché io ero la mela, la matita, il foglio. Poi, forse alla fine, qualcosa accadeva e mi accorgevo con sgomento di essere in un’aula rumorosa, con compagni rumorosi, con la campanella di fine ora che suonava e il professore che ritirava i disegni dicendo “non c’è male”.
Dov’era il tempo? Dove ero stata quell’ora mentre il mondo intorno andava da qualche parte e io no, io ero come sospesa?… sospesa in un tempo sospeso.
Tempo sospeso come quella sera di febbraio, umida e piovosa, in cui avevo realizzato a fondo quel che sapevo da mesi ma non così chiaro come in quel momento tra l’uscita dal lavoro e il ritorno a casa: mio padre sarebbe morto.
Era come se tutto il senso di quell’evento futuro si fosse concentrato in quel punto: le goccioline di umidità sul viso scoperto, i piedi che pestavano, noncuranti, pozzanghere. Le auto sulla strada erano lì, si, ma il loro rombo si dilatava per poi confondersi col rumore dentro al mio animo triste e al pensiero fisso nel mio cervello che, come un mantra, alimentava quella specie di trance: “non ci sarà più un padre per me”. La massa cerebrale non elaborava questa comprensione ma la spalmava nel mondo intorno espandendola all’infinito.
Così quel giorno; era martedì e la giornata si annunciava splendida. Maggio, la stagione degli inizi, dei fiori che sbocciano, delle giornate che non si esauriscono mai perché la luce e il tepore prevalgono, stava per finire e cedere il posto all’estate ancora fresca di giugno, alla forza propulsiva della natura che matura e esplode.
Mi ero alzata presto per iniziare il lavoro al negozio dopo una leggera colazione al bar, al solito bar; ti accorgi di assaporare le abitudini quando per un qualsiasi motivo hai dovuto sospenderle. Solo da qualche giorno si era ritornati al solito tran-tran.
C’era stata una scossa di terremoto poco prima dell’alba una decina di giorni prima. Ci eravamo svegliati all’unisono e ritrovati sgomenti nel corridoio, fuori dalle stanze da letto, io mio marito, i miei figli. Increduli, assonnati, impauriti.
Erano le 4,04 della notte tra sabato 19 e domenica 20 maggio 2012, come ricorda ancora oggi l’orologio che con la scossa si era staccato dalla parete cadendo sul pavimento, scheggiando il finto vetro e immobilizzando le lancette a quell’ora precisa.
Brutta cosa. Ci tranquillizzavamo a vicenda seduti sull’auto parcheggiata in strada, ricordando i terremoti passati: una, due scosse, forse qualche altra sempre più lieve di assestamento, poi più niente. Passerà.
Sarà stato il freddo della notte, la scomodità dell’auto o la fiducia nei confronti dell’evolversi positivo degli eventi naturali, che si rientrò. Era già domenica e la nostra casa che la notte aveva sussultato, era ancora lì ad accoglierci.
Poi di nuovo. Erano le 15,30 di venerdì 25 maggio e mi ero distesa sul divano dopo aver sistemato la cucina del dopo pranzo. Un sussulto. Non forte ma da far battere il cuore.
“Normale assestamento”, pensai e con assoluta lucidità sgusciai fuori casa. Via, via, all’aperto, alla campagna, ovunque non ci fossero tetti sulla testa.
Qualche ora, poi tutto si calma: le pulsazioni del cuore, l’impotenza, la voglia di scappare si arrendono. La città ritorna il luogo noto: la grande piazza con i suoi portici e il suo castello, la strada verso casa col suo viale alberato, i semafori, il traffico.
Martedì 29 maggio. Il ricordo di quella mattina è nitido e indelebile, come lo svolgersi progressivo delle scene di un film. Ero sola in negozio: piccola edicola e rivendita di generi di monopolio sulla piazza principale della città, sotto il porticato del Palazzo Vescovile, a fianco del Duomo. La mia collaboratrice aveva un appuntamento con l’associazione commercianti alle nove e si era incamminata a piedi per tempo. Attraverso la vetrina riuscivo a seguirla con lo sguardo sino a che era troppo lontana per riconoscerla tra la gente che si avvicendava lungo il portico e nella piazza.
Solito tran-tran; martedì giorno di estrazione al gioco del lotto. La mia cliente preferita era arrivata un po’ in ritardo; solitamente alle otto era già davanti al banco con le sue schedine perfettamente compilate e le ultime notizie sulle previsioni di uscita dei numeri che era riuscita ad estrapolare seguendo i suggerimenti dei maghi più famosi. E’ incredibile come la speranza di vincere entusiasmi e appassioni. Adoro questi piccoli giocatori scrupolosi, matematici, controllati. Si sentivano in giro storie di persone rovinate dal gioco; da noi no. Venivano per lo più vecchiette con sogni incredibili, da tradurre in numeri, come la simpatica signora che era davanti a me in quel momento. Non conoscevo il suo nome, veniva saltuariamente e credeva che la mia socia fosse mia sorella. Gliel’ho sempre lasciato credere.
Lei parlava, aveva giocato qualche schedina e scelto una rivista di cucina. Io ascoltavo. Il cassetto del contante per il resto si inceppava quanto conteneva troppa moneta; uno strappo ben fatto e si riapriva.
La banconota della signora sul banco, lo strappo per aprire il cassetto, un tonfo alle mie spalle come se qualcosa di molto pesante fosse caduto, proprio mentre il cassetto per il resto si apriva. Poi una pressione fortissima, molto vicina all’esplosione. Non capivo, forse non volevo capire, non credevo, speravo solo non fosse vero; invece… le vetrine con gli oggetti di valore iniziarono a produrre un leggero tintinnio, poi più forte, sempre più forte mentre gli oggetti in bilico cadevano uno dopo l’altro. Le pareti e il soffitto del negozio, così piccolo, si restringevano, si abbassavano.
Realizzai che la porta era aperta e che per fuggire avrei dovuto fare il giro intorno al bancone. Così feci e nel farlo afferrai il braccio dell’anziana signora ancora immobile davanti alla cassa, trascinandola e spingendola fuori con me. “Fuori!”, “Fuori!” al centro della piazza, al sicuro.
E lì, al centro della piazza assistevo impotente alla forte scossa del terremoto in Emilia delle ore nove del 29 maggio 2012. Quello che la terra aveva da dire lo sentivo sotto i piedi, risaliva lungo il corpo e raggiungeva l’anima. Era un dato fisico ed emozionale insieme: la terra ed io, una vibrazione unica di stupore, potenza, meraviglia; succedevano cose che la razionalità non conosceva.
I “merli” in cima alla torre del castello si inclinavano in avanti, verso la piazza, poi regredivano e ritornavano nella posizione originale. Dalle piccole finestre della torre usciva sbuffando polvere scura. I comignoli sulla sommità del torrione opposto frantumavano uno dopo l’altro per poi precipitare al suolo senza fragore, tanto più potente era il rumore della terra che tremava. La torretta a cupola in cima alla torre centrale con l’orologio rimase invece incredibilmente al suo posto.
La facciata del Duomo scricchiolava. Avrebbe potuto sbriciolarsi come stava succedendo all’intonaco ocra che si staccava in vari punti mostrando la calce bianca sottostante come l’apparizione di una colomba in un gioco di magia. Il grande crocifisso centrale, travolto dal suo stesso peso, s’inabissò all’indietro scomparendo alla vista. Una delle grandi sfere di abbellimento poste ai lati, invece, precipitò sul sagrato spezzandosi a metà.
Tutto si muoveva, cambiava di aspetto; la forma precedente cedeva il posto ad una forma nuova. Il balconcino del Palazzo Vescovile, proprio sopra al mio negozio, perdeva pezzi mentre subito sotto si aprivano ferite profonde. Una qua, una là, fin sotto l’arcata del portico imbiancata di fresco dove i lampioni appesi a lunghe catene dondolavano senza ritegno.
Gli occhi delle persone accorse al centro della piazza fissavano attoniti il cupolone del Duomo. La polvere, tanta, usciva dai lucernari, dalle tegole sul tetto, dalla grande crepa a forma di “U” che si stava aprendo come un sorriso beffardo. Così grande, così immenso, così vicino ad esplodere, a disintegrarsi, a travolgere tutto.
I rumori, i tonfi, i vetri infranti come gli allarmi indistinti, vicini e lontani, rispondevano al vortice di scosse che una dopo l’altra si abbracciavano tra loro e abbracciavano anche me che ero lì, che ero terra, aria, polvere e chissà fin dove arrivava. Un vortice che avrebbe potuto non finire mai.
Sapevo di cosa si trattava perché succedeva di nuovo e lì, al centro della piazza. Non esisteva più il tempo né lo spazio, nulla aveva più un proprio nome e in quel disordine tutto era sospeso. Io ero sospesa, in un tempo sospeso. Quanto durò?
Qualcuno mi tocco un braccio: era la cliente che avevo spinto fuori dal negozio.
“Signora” dice, “non mi ha dato il resto!”.
Epilogo: la mia città subì danni notevoli ma limitati a confronto con alcuni paesi confinanti. La zona rossa fu circoscritta al centro storico e gli edifici più danneggiati risultarono le chiese antiche, il Duomo e il Palazzo Vescovile.
Trascorsero quindici mesi prima di ottenere l’agibilità per il mio negozio.
Quattro anni durò il restauro del Palazzo Vescovile, cinque il restauro del Duomo.