Tiziana Michelini.
Pensionata da pochi anni ha finalmente il giusto tempo per coltivare antiche passioni come la fotografia e la scrittura. Partecipa al Concorso 50&Più per la seconda volta; nel 2019 ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la prosa. Vive a Carpi (Mo).
Giudizio della Giuria
Non potrà più fare l’acrobata, correre sul “filo che unisce”. Nel dormiveglia di un dopo-operazione Pierre scopre di essersi procurato una lesione alla colonna vertebrale che non lo può più fare camminare. la lenta consapevolezza della nuova condizione, il rimpianto di quella antica: il racconto riesce ad amalgamare i due stati d’animo con un buon ritmo di narrazione.
L’opera è interpretata e adattata da Fiorella Magrin
Dicono che quando si sta per morire la mente passi in rassegna in pochi istanti tutta la vita trascorsa, come in un film. Pierre si chiedeva se quello fosse il suo momento; si sentiva invaso da una consapevolezza strana e non era di questo mondo.
Avrebbe dovuto rivedere veramente tutto, compresi episodi sepolti e dimenticati o solo i momenti salienti? In ordine cronologico o avvenimenti sparsi senza nessun senso logico se non quello di ripercorrere quanto già avvenuto per lasciarlo andare?
Sarebbero apparse anche le persone? Solo quelle importanti o tutte le persone incontrate nel corso di una vita? Avrebbe potuto rivedere anche suo padre? Quante volte aveva provato ad immaginarlo in quel trascorso di trent’anni. Non lo aveva conosciuto. Di lui restava solo un lontano ricordo, vago e sbiadito come una fotografia in bianco e nero. Se n’era andato troppo presto, quando Pierre aveva l’età degli inizi, l’età inclusiva in cui tutto si apriva alla conoscenza, all’esplorazione del mondo, alla vita. E la vita includeva la vita, non la mancanza. Aveva imparato a crescere e a farcela, nonostante la mancanza di suo padre.
Avrebbe dovuto rivedere la sua vita sin dall’inizio? Dal momento in cui mosse i suoi primi passi, quei passi che, uno dopo l’altro, determinarono il suo destino? Era il poderoso braccio dello zio materno che lo sorreggeva a quel tempo, quello zio con i baffoni nero petrolio come gli occhi desti e guizzanti, così diverso da lui nell’aspetto e nei modi. Gli avevano raccontato che se lo teneva sempre appresso. Lo zio un gigante, lui uno sparuto uccellino biondo e pallido con le gambette magre e instabili.
“Dov’è Pierre?”, gli chiedevano.
“Te lo sei messo in tasca?”.
E il piccolo Pierre rideva; sapeva che, seppur mingherlino, non avrebbe mai potuto stare in una tasca dello zio.
E chissà, in quel film avrebbe potuto rivedere sua madre da giovane, lui nascosto tra i praticabili su cui lei si allenava e lei davanti allo specchio che raccoglieva i capelli mossi e chiari inclinando la testa di lato e li legava alti con un nastro dello stesso colore del costume di scena. Così bella e delicata e il suo viso truccato e incipriato gli ricordava una bambola di cera. Una fata triste se era sola. Radiosa e sorridente davanti al suo bambino e al pubblico che la applaudiva.
Avrebbe potuto rendersi conto della somiglianza di lei alla sua stessa età di adesso. Non era bello come lei: anche lui aveva capelli chiari ma i suoi erano dritti e perennemente scompigliati come se il vento fosse passato sul suo capo apposta per indispettirlo. Gli occhi grigi avevano un che di anonimo, ma come lei, emanavano un fascino particolare che rapiva lo sguardo altrui. Avevano la stessa tensione al centro della fronte dovuta alla concentrazione; le gote pronunciate, così femminili sul viso di lei, a lui annacquavano la mascolinità così come quella peluria sul mento che ancora a trent’anni, non si poteva chiamare barba. Entrambi di statura piccola, magri senza essere ossuti. Muscoli, tendini e nervi tesi, pronti, scattanti, capaci di sostenere forti tensioni. Avevano lo stesso modo regale di incedere e di offrirsi al prossimo.
E le emozioni? Avrebbe dovuto risentire sulla pelle ancora vitale anche le emozioni? I brividi? I battiti del cuore? Oh, quante emozioni avrebbe potuto evocare!
Nulla di tutto ciò sentiva e passava davanti agli occhi della mente. Il film non c’era. Quello che scorreva non era l’ultima pulsione nervosa di una mente che sta per abbandonare il corpo bensì l’evocazione di semplici ricordi, di immagini che aveva nel cuore e nella memoria.
Quello che percepiva era un vortice impetuoso dal quale scaturiva un unico pensiero, un’unica certezza: “no, non è il mio momento, non questo”.
Quello che vedeva era una massa filamentosa bianco trasparente che si staccava da un corpo esanime, ripiegato in una torsione impossibile da farsi, come un fantoccio abbandonato. Un corpo che avrebbe potuto essere di chiunque, il cui viso affondava sulla terra rimossa di fresco da decine di impronte di ferri di cavallo. Era vestito di bianco con lustrini che si accendevano al passaggio del faro intermittente e multicolore che ruotava al di sopra di tutto. Quel corpo poteva essere il suo ma non ne percepiva la consistenza, il battito vitale, il dolore. Se era il suo, ne era staccato.
Accorrevano persone. Sentiva voci.
“E’ morto?”.
“No, respira!”.
“Presto, chiamate i soccorsi”.
“Non muovetelo, tagliate il costume”.
“Ci vuole una forbice”.
Urla di strazio, sua madre disperata che, con gli occhi liquidi rivolti al cielo, cercava in un punto definito dello spazio la conferma di un inesorabile destino. Lo sgomento sul volto dei presenti. La sirena di una ambulanza.
La sua consapevolezza fluttuava al di sopra di questa scena, poi, lentamente, tutto divenne nero e silenzioso.
La coscienza faticava a riaffiorare da quel buio profondo. Lo faceva a intervalli irregolari come per abituarlo a piccoli passi alla consapevolezza di essere vivo.
Aveva iniziato col sentire calore. Partiva dalla mano, risaliva lungo il braccio e arrivava al petto, al cuore. Era lo stesso calore che provava quando, nei momenti tristi, sua madre lo accarezzava e sapeva di non essere solo. Come in quel momento. Lei era lì e il suo amore era il fluido vitale che percorreva e nutriva le sue cellule.
Lo tenevano sedato perché non sentisse il dolore.
Si susseguivano scene confuse credute visioni: un sacerdote seduto al suo fianco che diceva: “Sono passato per caso in corsia e ho saputo del tuo incidente. Pregherò per te. Che Dio ti benedica”.
O il pianto disperato dell’amica appena arrivata al suo capezzale e lui non riusciva a comprenderne il motivo. Lei piangeva? Perché?
Poi qualcuno gli aveva messo davanti al viso uno specchio e aveva guardato: il volto ritratto era gonfio, tumefatto. La palpebra sinistra viola, l’occhio chiuso, un taglio cucito con filo scuro sul labbro inferiore. Impressione tanta, dolore nessuno.
A poco a poco il senso della realtà tornava, ma il corpo, dov’era il suo corpo?
Medici col camice bianco sostavano silenziosi ai piedi del suo letto.
Credeva di sognare.
“Hai riportato frattura con lussazione della prima vertebra lombare e questo ha provocato la lesione irreversibile del midollo spinale. Non potrai più camminare”, era la sentenza.
Pierre era un funambolo.
Il circo era la sua casa e lui era un circense sin dalla nascita.
La mamma aveva ripreso il suo numero di contorsionismo pochi giorni dopo averlo partorito. Lo zio trapezista, l’uomo dell’aria, così lo chiamava, era stato il suo tutore e maestro dopo la morte del padre, pure trapezista. Era stato un insegnante determinato: lo aveva allenato al trapezio e alle altezze elevate nel tendone del circo da subito.
La mamma, ginnasta ed equilibrista, la signora della terra, a prendere la rincorsa e volteggiare contorcendosi in aria per poi atterrare a piedi pari con un impercettibile rimbalzo.
Il circo lo aveva visto crescere e lottare con le prime difficoltà di un corpo che si opponeva alla perfetta flessibilità per stupire un pubblico. Cresceva. Assorbiva nozioni e le plasmava su quel corpo che aveva imparato a conoscere a fondo fino a percepirne ogni singolo muscolo e a gestirne i movimenti con maestria.
Era nato per fare l’acrobata.
Un giorno poi aveva scoperto il cavo d’acciaio teso, o meglio, il filo. “Il filo che unisce”: univa due distanze, due solitudini; riempiva, attraversandolo, lo spazio, il vuoto. Altezza ed equilibrio insieme.
Giorni e giorni su quel cavo, prima con un solo piede, poi con entrambi, poi uno dopo l’altro. Lavoro duro. Ore e ore senza mettere piede a terra. Fatica, sudore. Con o senza bilanciere tra le mani, le braccia aperte, lo sguardo fisso in avanti, all’orizzonte, al traguardo.
Il funambolismo non può essere insegnato, si impara da soli. Solo lui sapeva quando il piede era perfettamente piazzato per poter fare il passo seguente.
A poche spanne da terra prima, poi più su, sempre più in alto fino a unire le distanze di qualsiasi spazio. Potevano essere due pali tesi al circo o in una piazza o tra una riva e l’altra di un fiume, o in piccole gole rocciose.
Là in alto Pierre era solo. Misurava lo spazio, palpava il vuoto, soppesava la distanza. Nel silenzio portava con sé, su quel filo tutto ciò che sapeva della terra e vinceva, passo dopo passo. Vinceva la paura perché aveva raggiunto il pieno controllo dei suoi piedi e della sua esistenza. Non volava eppure il suo procedere assomigliava al librarsi armonioso di un’emozione nell’aria che arrivava laggiù, sulla terra alle persone che, trattenendo il fiato, lo accompagnavano nella traversata.
Pierre era una persona felice. Fino a quell’ultimo passo. Quel passo che per pochi millimetri non era più in perfetto equilibrio sul filo. Un istante, solo un istante di mancata concentrazione o eccessiva fiducia nelle proprie abilità, chi lo sa.
Un errore. Imperdonabile.