Una carriera intensa e vivace lo vede autore, sceneggiatore e scrittore: “In quel blu di Genova”, uscito lo scorso luglio, è il suo primo romanzo. Proficua la sua collaborazione con lo storico amico e collega Luigi Vignali, con il quale spazia dalla Tv al cinema, dal teatro ai libri di satira
Michele Mozzati è uno dei più prolifici autori satirici italiani. In sodalizio con Luigi Vignali, come Gino & Michele, ha scritto programmi televisivi, libri umoristici, sceneggiature cinematografiche e pièce teatrali, oltre a “inventare” l’agenda Smemoranda. Da qualche tempo è in libreria il suo primo romanzo, Quel blu di Genova.
C’è una sorta di mantra che percorre il suo romanzo: “Tutte le storie sono storie d’amore”. È l’incipit di Eureka Street, di Robert McLiam Wilson: come può essere così totalizzante l’amore in una società sempre più globalizzata, asettica e algoritmodipendente come l’attuale?
Non c’è algoritmo, non c’è globalizzazione che possa umiliare l’amore in modo definitivo. Senza l’amore finiremmo con l’essere tra i tanti del mondo animale. È l’amore (con il suo opposto, purtroppo) che ci rende diversi, ci eleva a vite-vive con testa e cuore.
Per questo motivo ho scelto come incipit del mio romanzo Quel blu di Genova lo stesso di un altro scritto. Perché “tutte le storie sono storie d’amore” è una frase diretta, lineare, così normale da parere quasi banale. Sono convinto che dentro a ogni cosa apparentemente scontata e semplice ci sia il nocciolo dell’esistenza. Eureka Street è un formidabile romanzo di formazione, scritto da uno dei più grandi e restii autori della letteratura contemporanea. E inizia così, con una frase di mezza riga. Dentro, te ne accorgi quando vai avanti a leggere le restanti 400 pagine, c’è il senso e il non-senso di una delle più devastanti e incomprensibili assurdità del ’900: il conflitto nord-irlandese.
In Quel blu di Genova uso la frase più volte, davvero quasi come un mantra, ma non cito volutamente la fonte, quasi fosse un gioco col lettore.
Il suo romanzo ha un intreccio quasi da feuilleton ottocentesco. Lei risolve una trama che, un Wilbur Smith o un Ken Follett avrebbero elaborato in uno o due tomi, in 200 pagine che si leggono in un amen. Piuttosto che particolareggiare e articolare la narrazione, ha preferito arricchirla di rimandi storici, letterari e sociali, di “storie piccole di cui si sa poco”. Perché questa scelta?
Mi è venuto così. Lei mi cita grandi autori contemporanei. Io da adolescente mi divertivo a leggere la buona letteratura dell’Ottocento o, spingendomi oltre, Il dottor Zivago, o la letteratura sudamericana. Per me inarrivabili, oggi, da chiunque, almeno in Italia. Evidentemente temevo – più inconsciamente che con lucidità – di infilarmi nei tunnel del Conte di Montecristo o del Colonnello Buendìa. Se ti infili in quella struttura narrativa, liscia e appagante ma nello stesso tempo piena di “giganti”, il confronto anche lontanissimo con i Grandi Maestri ti annienta. Quindi ho scelto la strada un po’ folle di fare continui salti di tempo e di spazio. Alternando piccoli eroi dell’800 a grandi eroi del ’900. Fino all’Io Narrante, un normalissimo signore degli anni Duemila. E poi è bello saltare dal Castello Sforzesco milanese alla San Francisco di “City Light”, la libreria di Ferlinghetti. Mi sono proprio divertito.
Definisce il viaggio dei suoi protagonisti “l’onirica dimensione dell’utopia realizzabile”. Era così nel 1853. Oggi, reduci (o quasi) dalla pandemia, che esperienza è il viaggiare, sia fisico che mentale?
Devo dire che con le sue “domandine” non fa sconti! Rispondo. A posteriori si può sempre dire – è facile farlo – che un’utopia era in fondo realizzabile, soprattutto se nella storia che raccontiamo si è realizzata almeno in parte. Oggi siamo reduci. La mia generazione non soltanto dalla pandemia, soprattutto dai grandi ideali mai completamente o per nulla realizzati. Però, come premio di consolazione per tutto quello che non siamo riusciti a fare, ci è stato permesso viaggiare, viaggiare molto, negli anni, vedere come se la sono cavata gli altri uomini, idealisti o meno. Oggi il Covid ci ha tolto anche questo piacere del viaggio libero. Speriamo per poco.
Ma i viaggi con la testa, quelli si fanno eccome. Molto divertenti, soprattutto se poi si ha la possibilità di scriverli e raccontarli agli altri.
La Smemoranda n. 43 ha per tema “Stories”…
…“Storie”, se preferisce. Non è la stessa cosa, ma quasi. L’introduzione dell’agenda, come sempre affidata a Gino & Michele, inizia così: «Storie. Ci sono storie piccole e storie grandi, fragili e potenti. Storie che nascono dentro di noi e che si nascondono in tram. Storie vere e storie finte. Storie che si scrivono e si leggono sul telefonino. Tutti noi abbiamo bisogno di storie». E va avanti. Ma io mi fermo, anche perché si capisce che le due cose, Smemoranda 16 mesi e Quel blu di Genova, quasi si baciano. Tutte le storie sono storie d’amore, no?
Cosa pensa dell’evoluzione della programmazione e dei linguaggi satirici televisivi dagli Anni ’80 a oggi? Difetti e pregi, di cui peraltro lei è stato uno dei principali “colpevoli”?
Difficile parlare con poche parole di questo. Certamente il linguaggio televisivo è cambiato. È cambiata l’utenza e sono cambiate le tipologie di fruizione. Sono però convinto che si può immaginare una Tv migliore di quella che si vede oggi. Troppo inutilmente parlata. Poco spettacolo, molta confusione tra vero e falso. Ho detto falso, non verosimile.
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