«E’ notte fonda. Mentre la chiave gira nel grosso portone di legno grezzo, tratteniamo tutti il respiro. Nel deposito con gli imballaggi di paglia, appena dietro alla piazza principale di Cetona, siamo solo donne, vecchi e bambini. Sentiamo pochi passi, poi mia madre si libera dall’abbraccio stretto mio e di Ennio – mio fratello – e corre verso l’ingresso. “Zitta, per carità, Giuditta, zitta! Se i tedeschi scoprono che siete qua, vi ammazzano tutti”. L’uomo che è appena entrato si chiama Garibaldi. E’ un partigiano. E’ mio padre.
Io mi chiamo Anna Maccari e ho dieci anni.
La lotta partigiana
Non vediamo mio padre da giorni, da quando è nascosto coi suoi compagni sulle montagne. So che fanno saltare i ponti: vogliono aiutare l’esercito alleato a spingere i tedeschi verso la ritirata. Hanno persino rubato una loro auto e i tedeschi li stanno cercando ovunque.
La fede nella politica
La politica, a casa mia, c’è sempre stata. Nonno è un vecchio socialista e, prima della guerra, mi ha fatto confezionare una camiciola rossa con su ricamati falce, martello e un libro.
Prima della Guerra
Prima dello scoppio del conflitto, viviamo a Roma ma, con l’inizio della guerra, mio padre preferisce spedirci tutti in Toscana. «Al paese – dice – sarete più al sicuro. Così, con la mamma e mio fratello torniamo a Cetona che, prima, vedevo solo per le vacanze, d’estate: è la città dei miei nonni.
A Roma abbiamo una grossa trattoria in Via Angelo Emo. Trecentoventi coperti al giorno. Nonna in cucina e tanta gente a servire. Tutti cetonesi che abbiamo chiamato per aiutarci nella nostra impresa. Al giovedì, per scaricare gli gnocchi dai lanzagnoli, c’è bisogno di due uomini robusti per rovesciare i pentoloni tanto sono grossi. Facciamo da mangiare per gli operai delle Fornaci: tutti friulani, impiegati nella produzione di mattoni per l’edilizia. Io ballo trotterellando tra di loro e loro mi riempiono di attenzioni e cioccolata: sono tutti uomini soli. Le famiglie sono rimaste al Nord.
I miei hanno anche un negozio di vulcanizzazione di gomme e camion per il trasporto di benzina sui quali mio padre ha fatto scrivere il nome mio e di mio fratello Ennio. Quando gli autisti tornano la sera per riporli nel deposito, mi caricano su per farmi fare almeno un giro.
Fino a quattro anni, vesto abiti della migliore sartoria ebraica di Roma. Lo stesso, i miei genitori. All’asilo, frequento le suore di Ivrea e a scorrazzarmi ci pensa Adele, una tata con un grosso neo sul mento. Tutto intorno a casa, le grandi fornaci col fumo che sale su, in alto, fino al cielo.
A Cetona
Poco prima dell’inizio della guerra, il nonno è in procinto di comprare una grande villa che, dopo il bivio, da Cetona porta a Piazze. E’ circondata da vigneti e da campi lavorati, ma l’acquisto sfuma e io non so che sta per cambiare tutto. Con la partenza per la Toscana, mio padre si trova a svendere ciò che abbiamo. In quel momento c’è chi fa profitto acquistando per poco prezzo. Conserviamo due case, a Cetona, e quella dei nonni materni che affaccia sullo Steccato da cui si vede l’intera valle.
Le bombe sopra
Dalle finestre di casa, sopra alla salita di Capperoni, vedo gli aerei buttare giù le bombe. Le sganciano su Chiusi: i tedeschi vogliono far saltare la ferrovia. Un giorno, una cannonata, centra in pieno casa dei nonni paterni. Io sono in cucina con loro per la colazione. Il nonno si è appena alzato. Qualche istante dopo, della sua stanza non resta che un cumulo di polvere. Parte della casa finisce sventrata. Così, per prudenza, ci ripariamo nella parte alta del paese e mentre scappiamo sento la gente che grida: chiede aiuto.
Via Rasella
Ma il momento più brutto è all’indomani dell’attentato di Via Rasella. Mio padre è in carcere, a Siena: è stato catturato. Si sparge voce che, come rappresaglia per l’attentato, i nazisti prenderanno i partigiani dalle carceri e li fucileranno. A casa si vive nel terrore. Lo stesso terrore che ho già provato quando mio padre e suoi compagni erano all’ascolto di Radio Londra. Avevo paura che la guerra se lo sarebbe portato via. In città nessuno capisce l’inglese e a tradurre la radio ci pensa Ettore Fabietti, un intellettuale, un uomo di grande cultura: papà dice che ha lavorato al fianco di Turati.
La Liberazione
Quando si sparge la notizia che l’Italia è stata liberata, io sono in piazza, col nonno, a Cetona. C’è un comizio e la gente grida e si abbraccia. Nella stessa piazza in cui ho visto cetonesi legati alle sedie, costretti a ingurgitare olio di ricino, poco distante dai campi in cui i sette fratelli Cervi furono depredati delle loro galline e barbaramente trucidati.
A Roma, dopo la guerra
All’indomani della fine del conflitto, i miei genitori decidono di tornare a Roma dove continuo gli studi fino alle medie. Non abbiamo più niente: giusto un po’ di pane e olio razionato. Mio padre si mette in cerca di un lavoro che, però, stenta a trovare. Io, a dodici anni, abbandono le lezioni. Sono una studentessa appassionata e gli insegnanti, perciò, scrivono a casa per far sì che continui gli studi. Ma io ho già deciso: c’è da portare il pane a casa. Perciò, vado a bottega in una sartoria. Sono la più piccola del laboratorio e a pranzo mangio sulle ginocchia del pane imbottito con quel po’ che la mamma riesce a recuperare in casa. La titolare, ogni tanto, mi regala qualche centesimo oltre la piccola paga che mi garantisce ogni settimana. Non conservo nulla: do tutto alla mamma. So che tutto è cambiato e, in qualche modo, bisognerà pur ripartire».
25 aprile 2020 – Anna Maccari vive a Roma. Oggi ha 85 anni
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