Giuseppe Messina.
Dopo la maturità classica frequenta la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Bari. Ha lavorato con un’attività commerciale presso il settore delle macchine e delle strutture edili. Ama l’arte, la musica e l’ambiente con particolare attenzione ai problemi sociali e all’incremento della cultura nel proprio territorio. Ha partecipato a diversi concorsi ottenendo lusinghieri riconoscimenti; ha pubblicato un racconto nel 2018 dal titolo “Papaveri rossi”, è responsabile del Presidio del Libro di Foggia, città in cui vive. Al Concorso 50&Più partecipa per la quarta volta; nel 2017 e 2019 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa.
Giudizio della Giuria
Il viaggio del piccolo Gaido dal villaggio nero della Guinea Bissao alle coste italiane nel barcone con altri cento migranti. La violenza, gli imprevisti, l’orrore, una difficile speranza che si scontra con un “ ignoto diverso”. È la voce delle moderne sirene che possono ingannare e intrappolare. Come nel lungo viaggio di Ulisse che Gaido ha imparato a conoscere nella piccola scuola gestita da volontari foggiani che gli hanno fatto conoscere quella antica, magica storia .
L’opera è interpretata e adattata da Vittorio Viviani
Nel piccolo villaggio nero della Guinea Bissau, un gruppo di volontari foggiani ha costruito un piccolo ospedale e una piccola scuola, condotti da due medici e dieci piccole suore: una vera manna per i piccoli villaggi intorno, popolati da un buon numero di piccoli bambini, piccoli grandi frutti dell’amore e della povertà. Le due costruzioni, verniciate di bianchissima calce, spiccano, come un richiamo di luce, in quella già intorno, vestita dell’oro del deserto. Le maestre dedicano l’ultima ora di lezione al racconto di favole e storie: ai vecchi toccano quelle locali, loro narrano quelle della propria terra d’origine. Così Gaido ha conosciuto la storia di Ercole, di Achille, di Orlando, ma Ulisse lo ha affascinato più di tutti: ne parla spesso con il padre Djambo e sogna il mare che non ha mai visto. Le maestre dicono che è come il lago vicino, ma grande come il deserto e si muove di continuo al soffiare del vento nelle diverse trasparenze dell’azzurro e del verde.
Gaido, intelligente e curioso, impara a parlare e scrivere in italiano e in inglese in meno di un anno. Da tempo, papà Djambo, stanco e preoccupato per i continui colpi di stato, pensa di andare in Italia. Con fatica, mette insieme i soldi per il viaggio: lavorerà tantissimo nella nuova terra per una vita meno povera e un buon avvenire per i figli. Partono alla fine della scuola verso il Paradiso, secondo le suore. Durante il viaggio, vengono fermati e catturati da un gruppo di mercenari che vivono del traffico di uomini, di migranti come chiamiamo oggi i nuovi schiavi.
Djambo ignora che gli occidentali, che vivono aldilà dell’equatore, hanno scatenato guerre nel settentrione dell’Africa per spingere gli africani a emigrare in Europa, dove c’è un bassissimo tasso di natalità: dovranno diventare i nuovi consumatori.
Percorrono migliaia di chilometri tra stupri e violenze che le donne subiscono dai soldati al passaggio di ogni frontiera e a cui non sfuggono la madre e la sorella di Gaido: il futuro si è tinto di rosso e di nero, il sogno e la speranza sono svaniti. Il ricordo di Ulisse si va sempre più affievolendo, è quasi cancellato dai soprusi e dalle sopraffazioni subite. Giungono in Libia, in un accampamento di fronte al mare; ci vivono, in estrema povertà, migliaia e migliaia di neri venuti dalle regioni più povere, tutti con la stessa speranza: andare aldilà di quella distesa d’acqua di cui non si vede la fine, in Paradiso. Al centro dell’accampamento, un vecchio altissimo, sottile come uno stecchino, la barba e i capelli bianchi e ricciuti, racconta storie ai bambini; Gaido gli chiede se conosce la storia di Ulisse. Subito il santone prende a raccontare che il mare difronte è proprio quello percorso in lungo e in largo dall’eroe greco e che aldilà di esso, sulle coste dell’Italia, vivono ancora, dopo più di tremila anni, le sirene. Narra la leggenda di un uomo forte e coraggioso, dotato di volontà e ingegno non comuni, venuto dalla lontana Grecia.
Portava con sé la fama della conquista di Troia dopo dieci anni di assedio, grazie all’idea del cavallo di legno inventato e costruito da lui. Tornato a casa, riconquistò la sua Itaca liberandola da un nugolo di nobilastri dediti al vizio e alla dissolutezza.
Dopo alcuni anni, Ulisse decise di andare a scoprire quello che era oltre le Colonne d’Ercole: il fascino dell’ignoto lo attirava irresistibilmente. Tutti coloro che avevano osato superarle non avevano fatto ritorno, forse inghiottiti in un abisso senza fine. Prima, voleva scoprire Alessandria, la città che Alessandro il Macedone aveva costruito e vantava un’immensa biblioteca, e desiderava, soprattutto, ascoltare il canto delle sirene, sulla sponda opposta. Sapeva quanto fosse irresistibile: quel canto dolce e seducente ammaliava, stregava; tanti, prima di lui, ne erano rimasti soggiogati fino a morire, uccisi da quelle creature crudeli.
La maga Circe l’aveva avvertito:
“… affascina chiunque i lidi loro con le
sue prore veleggiando tocca…”
… mandano un canto dalle argute labbra
che alletta il passegger: ma non lontano
d’ossa d’umani putrefatti corpi.
Tu veloce oltrepassa e con mollita
cera de’ tuoi l’orecchio tura…
…Te della nave all’albero i compagni
leghino e i piedi stringati e le mani…”.
Fu l’esperienza più esaltante della sua vita e mai dimenticò quel canto, bello come nessun altro, né i corpi stupendi di quelle creature metà donne e metà pesci. Fin qui il racconto del vecchio santone.
Nei secoli, le sirene sparirono; di loro si parlò grazie all’Odissea del greco curioso e ingegnoso. Il vento non trova più le vele e non mormora e canta tra le sartie e gli alberi; il rombo cupo dei motori delle navi moderne copre anche la voce del mare.
In qualche notte, però, il canto delle sirene si leva ancora: non è più come un tempo, è triste e malinconico, svuotato di qualsivoglia desiderio, di speranza.
Da troppi anni, imbarcazioni fatiscenti o gonfie di aria trasportano un inverosimile numero di uomini, donne e bambini in cerca di una nuova terra; venti di guerre lontane travalicano il mare e raccontano storie di gente scacciata dalle proprie case, bombardate e distrutte, di bimbi e fanciulle in fiore stuprati e privati più volte dei petali della loro innocenza lungo l’interminabile cammino verso un sogno già mutilato. E, poi, il grande mare e la tentazione di attraversare l’ultima speranza, quando le presenze straripanti non provocano il naufragio. Le sirene hanno visto i troppi corpi accolti dal mare che pone fine al loro dolore, le tante vite, già finite nell’abisso, inabissarsi per sempre a fare da pasto ai pesci; hanno tentato di salvarne qualcuna e ci sono riuscite ridestandole con un canto nuovo, di gioia affannata su cui è incisa la malinconia per le cose perdute, cancellate per sempre dal ricordo.
Un giorno, qualcosa affiora vicino alla riva: un corpo di bimbo a cui il mare non ha strappato i piccoli jeans e la maglietta rossa; un’onda decisa lo spinge sulla sabbia nel calore del sole, perché almeno l’anima si scaldi.
Altre onde sospingono corpi: fanciulle, quelle in fiore di un tempo ancora troppo vicino, nude nella innocenza riconquistata, perché la morte cancella il dolore e la ferocia, e restituisce la purezza. Corpi emaciati per gli stenti, altri ancora scolpiti nella muscolatura perfetta: pastori e cacciatori che un tempo non lontano percorrevano ogni giorno miglia e miglia, pronti ad ogni pericolo, fieri della ineguagliabile libertà che la natura gli offriva. Le sirene mutano il loro aspetto, si mescolano a chi è accorso nella speranza di recuperare altre vite; i volti si illuminano, le voci si fanno concitate alla vista di quelle salvate da loro, ma nessuno mai saprà la verità.
La sera, gli uomini vanno via: la spiaggia è libera, il mare riprende a levigare le pietre, a stendere la sabbia smossa dalla ricerca affannata dei soccorritori.
Le sirene stanno sugli scogli più alti a scrutare nel buio; il canto è ora una preghiera dolce e forte a un tempo. La luna è alta nel cielo, piena a rischiarare il mare; gocce di luna rigano il volto delle antiche creature; sanno che giungeranno altri bimbi, altre fanciulle ormai sfiorite, perché troppi uomini hanno dimenticato la pietà e si sono spogliati della più semplice umanità.
Sanno che non sarà facile il cammino per chi riuscirà a salvarsi, ad arrivare vivo sulle coste in cerca di una casa e di un lavoro; sanno che chi abita queste terre non guarderà di buon occhio i nuovi arrivati: il più delle volte l’indifferenza diventerà insofferenza, la tolleranza intolleranza, sarà difficile se non negata l’accoglienza.
Il canto di preghiera si leverà incessante per tutta la notte e domani ancora, accompagnato dal dolce mormorio della risacca. Gaido, nel barcone con altri cento migranti, si lascia accarezzare dalla dolce brezza marina e cerca di leggervi la voce delle sirene, il suono della speranza. Sono partiti di notte per sfuggire alla sorveglianza della Guardia costiera, per evitare altri ostacoli e altre sofferenze, ma non possono impedire che gli scafisti facciano scivolare in mare i più deboli e malati per “alleggerire il carico”. La costa è lontana ma gli occhi non si stancano di cercare nel buio della notte, il cuore non smette di pregare. Gaido chiede soltanto di ascoltare quel canto: sa che gli darà la forza per continuare, per raggiungere, con il suo Ulisse, le colonne d’Ercole, l’ignoto che non lo spaventerà più. Ignora che l’attende un campo d’accoglienza, il “Ghetto”, che farà rimpiangere i campi libici: qui le ragazze verranno avviate alla prostituzione sulle strade intorno alle città, i ragazzi allo spaccio di stupefacenti; gli uomini, agli ordini di caporali senza scrupoli, sovente neri anche loro, raccoglieranno quintali e quintali di pomodori nelle campagne intorno. Qui, abitazioni fatiscenti, messe su con pezzi di lamiere abbandonati intorno ai cassonetti della spazzatura, riescono a proteggere a mala pena da improvvisi e rari scrosci di pioggia e non certo dal caldo torrido dell’estate; frotte di topi si azzannano fra loro per la mancanza di cibo.
Diambo, più volte nel giorno, vede un lampo di luce bianchissima attraversare la luce dorata dei campi di grano che hanno preso il posto del deserto: rivede il piccolo ospedale e la piccola scuola costruiti da quel gruppo di volontari tanto diversi dai tanti bianchi che incontrano qui.
Il lungo viaggio alla ricerca di Ulisse ha rivelato un ignoto diverso.