Nei prossimi cinque anni mancheranno almeno 45mila medici per effetto dei pensionamenti e le uscite non saranno bilanciate dalle nuove assunzioni. A lanciare l’allarme, ormai da tempo, è la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale Fimmg, insieme al sindacato dei dirigenti medici Anaao
Nel 2028 saranno andati in pensione 33.392 medici di famiglia e 47.284 medici ospedalieri, per un totale di 80.676, ma per i medici di base le borse per il Corso di formazione messe a disposizione ogni anno sono circa 1.100; se il numero resterà costante, gli assunti nel quinquennio non supereranno gli 11mila e lasceranno scoperti 22mila posti. Ancora più complicato fare un calcolo per le assunzioni di medici ospedalieri, legate alle possibilità di nuovi concorsi su base regionale.
Già oggi ogni medico di medicina generale ha in media circa 1.400 pazienti in carico, ma il numero varia da una regione all’altra: al Nord il carico risulta più elevato rispetto al Centro e al Sud. Secondo gli accordi collettivi nazionali, il numero massimo di assistiti non dovrebbe superare i 1.500, ma in Veneto questa soglia è stata portata a 1.800 per sopperire alla mancanza di copertura. Le regioni con il più alto numero di pazienti per ciascun medico di medicina generale sono il Trentino Alto Adige con 1.454 e la Lombardia con 1.408; quelle con il numero più basso sono la Calabria con 1.055, la Basilicata con 1.052 e l’Umbria con 1.049.
Perché si è arrivati a questi squilibri nella prima assistenza? Innanzitutto c’è il fattore età, perché l’Italia, rispetto agli altri Paesi UE, ha il numero più alto di medici over 55, con il 54% del totale. In Ungheria, Lussemburgo, Cipro, Germania, Belgio, Francia, Estonia, Lettonia e Bulgaria la percentuale è compresa fra il 42 e il 49%, mentre negli altri si attesta al di sotto del 42%.
Compensare molti pensionamenti con altrettante assunzioni di medici all’inizio della propria carriera non è dunque scontato, per il crollo demografico che rende insufficiente il ricambio generazionale e perché le misure messe in campo risultano ancora inadeguate: basti pensare al fondo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, con il quale per il prossimo triennio saranno finanziate le 900 borse di formazione aggiuntive annue, con numeri che restano inferiori a quelli che potrebbero soddisfare il reale fabbisogno del Paese in campo sanitario.
Come ha ricordato il presidente dell’Ordine dei Medici, Filippo Anelli: «È un numero finalmente congruo, ma le carenze sul territorio sono tali che nei prossimi cinque anni, finché saremo sul picco della gobba pensionistica, ne servirebbero 4mila all’anno».
Nel frattempo, dal 2019 a oggi, hanno chiuso in media due ambulatori al giorno, e le zone più a rischio sono quelle periferiche, come conferma un’analisi condotta da Cittadinanzattiva sul fenomeno dei cosiddetti “deserti sanitari”.
I dati sono quelli ufficiali forniti dal Ministero della Salute e relativi al 2020, riguardo non solo i medici di medicina generale, ma anche i pediatri di libera scelta, i ginecologi, i cardiologi e i farmacisti (includendo solo quelli ospedalieri per queste ultime tre categorie) per ciascuna Provincia italiana.
Le province con il più alto numero di pazienti assegnati a ogni medico di base sono Bolzano (1.539), Bergamo (1.517), Brescia (1.516), Treviso (1.445), Trento (1.403). Per numero di bambini seguiti da ciascun pediatra la situazione più allarmante è quella di Asti (1.813), seguita da Brescia (1.482), Novara (1.370), Vercelli (1.367) e Bolzano (1.364).
La situazione regionale si inverte se si cerca invece un ginecologo ospedaliero, perché in questo caso è Caltanissetta a registrare il record negativo di un medico ogni 40.565 pazienti, seguita da Macerata con 18.460, Reggio Calabria con 9.992, Viterbo con 9.163, e La Spezia con 8.061.
Se si considerano i cardiologi, il problema è trasversale: a Bolzano ce n’è uno ogni 224.706 pazienti, a Potenza uno ogni 105.789, a Crotone uno ogni 72.172, a Caltanissetta uno ogni 36.941, a Viterbo uno ogni 34.137.
Per quanto riguarda infine i farmacisti ospedalieri, lo squilibrio più alto si registra a Reggio Emilia con un professionista ogni 264.805 cittadini, Campobasso con uno ogni 108.681, Reggio Calabria con uno ogni 75.852, Piacenza con uno ogni 71.608 e Lecco con uno ogni 55.827.
Gli squilibri dunque ci sono, ma non necessariamente fra Nord e Sud, o fra una Regione e l’altra, perché anche nelle Province di una stessa regione si possono riscontrare situazioni molto diverse, a pochi chilometri di distanza. Mettendo insieme le 39 Province con gli squilibri più marcati, Cittadinanzattiva ha evidenziato che le regioni complessivamente più problematiche sono Lombardia e Piemonte, seguite da Friuli Venezia Giulia, Calabria, Veneto, Liguria ed Emilia Romagna.
I fondi e i progetti previsti dal PNRR per realizzare Case e Ospedali di comunità potrebbero potenzialmente ridurre alcune di queste carenze e consentire al cittadino una prima assistenza più rapida, senza dover affrontare il sovraffollamento degli studi medici e liste d’attesa lunghissime. Delle strutture previste, però, solo poco più di un terzo, ossia 508 Case e 163 Ospedali, saranno realizzate nelle aree interne, e dunque continueranno a essere tagliati fuori da un accesso sicuro alla salute pubblica oltre 5 milioni di persone che vivono in zone periferiche e ultraperiferiche. Per fare alcuni esempi, i residenti nei 13 Comuni più remoti della Valle d’Aosta e nei 36 della Liguria, non avranno a disposizione nessuna delle due nuove tipologie di servizi territoriali previsti dal PNRR, e per oltre 650mila italiani di 7 regioni (Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Umbria e Marche) non ci sarà alcun Ospedale di comunità accessibile. Le aree periferiche friulane avranno solo una Casa di comunità per 43 Comuni, quelle marchigiane una Casa per 42 Comuni, quelle piemontesi una per 131 Comuni.
Altre regioni, come la Lombardia con 199 Case e 66 Ospedali, la Campania con 172 Case e 48 Ospedali, e la Sicilia con 156 Case e 43 Ospedali, saranno particolarmente interessate dal cambiamento.
Nel frattempo, un emendamento approvato in Commissione Affari sociali alla Camera ha disposto la possibilità, per medici e docenti universitari di medicina e chirurgia, di poter restare in servizio fino al 72esimo anno di età, posticipando di fatto – sino al 31 dicembre 2026 – il limite già esteso a 70 anni, in particolari condizioni, per i medici dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale.
Insomma, per sopperire all’immediata carenza di organico, si sta cercando di diluire i trattamenti pensionistici nel tempo, quando possibile, su base volontaria. Questa facoltà è estesa anche al personale medico che lavora in strutture private convenzionate. L’ente previdenziale dovrà calcolare l’importo pensionistico maturato dall’interessato sino alla nuova collocazione, e l’amministrazione di appartenenza attribuirà una retribuzione equivalente.
Una misura tampone in attesa che le nuove leve superino il Corso di formazione triennale e possano esercitare, che non riporterà i numeri in equilibrio.
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