Maurizio Ballerio. Vive da sempre a Buguggiate (Va) Pensionato, con moglie e tre figli. Affascinato dalla bellezza dell’arte, della natura e dell’umanità. Partecipo al Concorso 50&Più per la settima volta; nel 2016 e 2018 menzione speciale della giuria
Corruzione per Carnevale, 60 anni già passati. La corruzione è sempre esistita, così come le maschere. Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, ha indossato una maschera, un infingimento per nascondere dubbi e fragilità.
In un paese di provincia, poi, è più difficile fingere, imbrogliare, beffare. Ci si conosce tutti e la gente mormora.
Eppure, ricordo sempre un caso di malcostume, proprio il mio costume di carnevale. A 10 anni, così come l’anno prima, sempre vestito da cowboy: un cappello, pantaloni di velluto scuro, una camicia a quadri di flanella. Invero un povero piccolo mandriano, scarpe da pioggia, senza neanche gli stivaletti appena visti nei primi film western dati alla televisione.
Neanche una pistola finta (già rotta prima) nel mio fodero. Forse per questa mancanza, in seguito, sono stato un po’ disarmato anche nella vita.
Insomma, un po’ stufo di questa tenuta, come stufo della solita sfilata all’oratorio riservata solo ai pochi maschi praticanti la parrocchia. Le femmine facevano rassegna dalle Suore. Loro in abiti lunghi, in genere da fatine con bacchetta magica. Mai un’inquietante strega.
Più o meno costretto da mia madre a sfidare o sfilare con bambini più a loro agio in vestiti e trucchi. Le migliori maschere venivano poi accompagnate, come premio, alle sfilate più importanti di Laveno e Varese. Ricordo in gara abiti forestieri, esotici: un maharaja indiano, un corsaro nero, un dignitario cinese. Di casa nostra solo un Arlecchino: servo di due padroni con la fantasia e l’immaginazione dell’italiano. Non abiti fatti in casa come il mio, bensì di negozio, sfoggiati con voglia di riscatto su usi e costumi contadini. La giuria era composta da donne anziane, di chiesa, vestite di nero a mo’ di perpetue. Una breve passerella poi la premiazione dei primi tre. Vincitore quell’anno, l’antico cinese; secondo il mio abito da cowboy. Impossibile. Da non crederci. La mia voglia di ribellione a una povera sfilata, i miei complessi d’inferiorità, i miei pensieri: usciti tutti ancora più confusi. Rivalutata un poco l’opera sartoriale di casa.
Solo in tarda età mi è stato confessato da parte di mia mamma che la giuria, composta essenzialmente da sue amiche, era stata da lei “corrotta” e resa compassionevole nei miei confronti. Declassati abiti di bambini più ricchi, figli di gente nuova, venuta da fuori.
Forse lì ho capito il valore dell’umiltà, della semplicità e accettato la sfida dell’onestà. Per la giuria invoco clemenza. Non c’è stato alcun scambio di denaro. Reato prescritto, colpevoli in cielo. Ho comunque rifiutato di partecipare alle sfilate di Laveno e Varese. Non mi sono più vestito a carnevale.
Giudici di tribunale: non sapevo della corruzione. Lo giuro, ero innocente.