Quando l’ONU annunciò che il 1975 sarebbe stato l’Anno delle Donne, un comitato che riuniva le maggiori organizzazioni femminili islandesi propose di sottolineare l’importanza dell’evento con uno sciopero generale. L’iniziativa doveva mandare un messaggio forte: senza il lavoro delle donne, così spesso sminuito, il Paese avrebbe semplicemente smesso di funzionare.
Il 24 ottobre del 1975, le donne islandesi non si presentarono al lavoro e scesero in piazza. Soprattutto, si rifiutarono di accudire figli e persone malate, di cucinare, di prendersi cura della casa. Banche, fabbriche e moltissime scuole chiusero i battenti per mancanza di lavoratrici. Padri disperati furono costretti a portare i figli al lavoro con sé, armati di caramelle e matite colorate per intrattenerli. Le salsicce, facili da cucinare e amate dai bambini, divennero introvabili sugli scaffali dei negozi. Passò solo un anno perché il governo approvasse una legge contro la discriminazione sessuale nei luoghi di lavoro e nelle scuole. Era un passo iniziale: nel 1980 l’Islanda diventò il primo Paese al mondo ad eleggere una donna Presidente della Repubblica.
Nel 2022, sono ancora poche le donne che arrivano ai vertici delle aziende, delle professioni, della politica. La parità è lontana: in Italia e nel mondo – Islanda inclusa – le donne, in media, continuano ad essere pagate meno degli uomini. Un divario salariale, o “gender gap”, che persiste anche davanti all’aumento costante della presenza femminile in tutte le occupazioni.
Una delle ragioni plausibili è che questa discrepanza sia dovuta a scelte individuali: le donne preferiscono lavorare in campi che sono meno pagati – nell’insegnamento o nella cura degli altri, ad esempio – ma più gratificanti dal punto di vista umano. O ancora, si orientano verso mestieri che permettono di conciliare famiglia e lavoro, che non richiedono orari estenuanti, a costo di sacrificare possibilità di carriera. Se il divario salariale fosse dovuto solo alla scelta di uomini e donne di intraprendere professioni diverse e dare la precedenza alla flessibilità o all’ambizione, allora il problema non sussisterebbe. Ma a che punto si può disegnare il confine tra scelte personali e la realtà in cui si vive? Quanto conta il contesto in cui viviamo?
Una serie di studi, i cui risultati sono stati replicati in numerosi Paesi occidentali, ha dimostrato che le donne pagano più di ogni altra cosa il prezzo di diventare madri. Le donne che non hanno figli hanno guadagni più in linea con quelli degli uomini, per i quali invece la paternità non determina una riduzione degli stipendi. Al contrario, le madri di figli piccoli non riescono a stare al passo con chi non ha figli e i loro guadagni ne risentono in maniera permanente.
La protesta delle donne islandesi, oltre ad avere un enorme successo, mostrò una realtà incontrovertibile, che era già sotto gli occhi di tutti. Mansioni come accudire i figli, occuparsi delle pulizie e dei pasti, sono essenziali al funzionamento di un Paese. Sono un lavoro a tutti gli effetti, che ricade principalmente sulle spalle delle donne, soprattutto quando diventano madri. E che le penalizza non solo in casa, ma anche sul posto di lavoro.
La produttività delle madri lavoratrici è considerata inferiore a quella degli uomini; per questo motivo le donne perdono opportunità di carriera e di aumento degli stipendi. Nel nostro Paese, il congedo di paternità obbligatorio è di soli dieci giorni, a fronte dei cinque mesi garantiti alle madri lavoratrici. Questo crea uno squilibrio a monte: se il congedo parentale è riservato alle donne, toccherà a loro la maggior parte delle attività di cura dei figli. L’assenza di garanzie equivalenti per i padri, di fatto, le imprigiona in un ruolo arcaico.
Di recente è stata presentata una proposta di legge per allungare a tre mesi il congedo di paternità per i lavoratori dipendenti. Se la proposta dovesse passare, equiparerebbe il ruolo dei genitori nella crescita dei figli, invece che assegnare questo compito in primo luogo alle donne, rendendole più vulnerabili alla discriminazione nei contesti lavorativi. Il divario salariale sarebbe colmato, almeno in parte, perché un congedo equivalente per i padri bilancerebbe le spese sostenute dai datori di lavoro per uomini e donne: ci sarebbero meno ragioni per privilegiare la carriera dei primi.
La paternità obbligatoria è una mossa radicale. Toglie lo stigma a cui gli uomini sono sottoposti anche quando desiderano avere un ruolo più sostanziale nella vita famigliare. Invece di cercare di cambiare le idee delle persone, gli stereotipi che si portano dietro, è un modo di cambiare direttamente le strutture sociali in cui operiamo, che limitano e danno forma alle nostre decisioni individuali.
Il 24 ottobre del 1975 venne rinominato dagli islandesi il “Venerdì Lungo”. Gli uomini, costretti a sobbarcarsi il lavoro invisibile delle donne, si ritrovarono sopraffatti dalla mole di incombenze di cui occuparsi. E cominciarono a capire.
Gianrico Carofiglio (Bari, 1961) ha scritto racconti, romanzi e saggi. I suoi libri, sempre in vetta alle classifiche dei best seller, sono tradotti in tutto il mondo. Il suo romanzo più recente è La disciplina di Penelope.
Giorgia Carofiglio (Monopoli, 1995) si è laureata in Teoria Politica presso la University College London. Ha lavorato in un’agenzia letteraria e collabora con case editrici.
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