Carla Matassi. Laurea in inglese, ha insegnato inglese negli istituti superiori statali per 36 anni. Dopo la pensione, Master in Counseling e Master in Mediazione Familiare. Adesso esercita come Counselor Professionista all’Università 50&Più di Lucca e più frequento coro e laboratorio teatrale. Ha tenuto una conferenza sul Counseling presso la sede dell’Università 50&Più che ripeterà nella sede di Massarosa (Lu). Talvolta si diletto a scrivere prosa. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Lucca.
Diversi anni fa, dopo Ferragosto, ero rimasta sola in montagna. Mio marito era tornato in città per lavoro. Trascorrevo le mie giornate in modo regolare e sistematico. La mattina andavo per funghi nei boschi, nel pomeriggio mi mettevo al computer per lavorare ad un progetto per la scuola.
Mi alzavo di buon’ora, facevo colazione e poi partivo a cercare porcini. In quel periodo non c’era l’assalto ai boschi che si sarebbe verificato negli anni successivi. Facevo radi incontri e ancor più rade chiacchierate. Il cercatore di funghi non ama fermarsi a parlare, spinto com’è a riempire il paniere. Quindi per lo più mi godevo la mia ricerca solitaria, con lo sguardo piantato a terra per scorgere un tratto, un colore, un indizio – proprio come un detective da libri gialli. Mi sentivo una specie di Sherlock Holmes del fungo.
Avevo il mio piccolo successo ogni mattina. Un chilo, un chilo e mezzo, talvolta di più. Una parte finiva in padella, una parte nel congelatore.
Quella mattina avevo scelto di visitare una selvetta non lontana da casa che mi aveva spesso dato soddisfazioni. Ero partita dal basso, dal sentiero che correva lungo la selva e davvero non mi stava deludendo. Ora qua ora là avevo iniziato a riempire il paniere. Risalendo, ero ormai prossima a sbucare in un’altra parte del bosco, quando mi chinai per raccogliere un bel porcinotto di media taglia che occhieggiava ai bordi di una radura. Era un tratto di terreno pulito, concavo, quasi una grossa scodella. Distrattamente notai che sul fondo qualcosa si muoveva. Allora mi fermai, incuriosita. Dapprima non riuscii a identificare quel qualcosa, poi, facendo più attenzione, mi resi conto che si trattava di un batuffolo peloso: un piccolo di scoiattolo. Come tutti i cuccioli faceva tenerezza e per un attimo fui tentata di prenderlo per accarezzarlo. Poi però mi ricordai di aver letto che se lo avessi toccato la madre si sarebbe sdegnata e lo avrebbe abbandonato.
Così non feci niente, me ne stetti ferma e zitta, respirando piano, senza fare alcun rumore. Aspettavo. La mia attesa fu ricompensata: la madre scese dall’albero vicino, si avvicinò, quatta quatta. Appena mi vide si fermò di scatto. Per qualche istante rimanemmo così, ferme, a scrutarci. Poi, probabilmente rassicurata dalla mia immobilità, cominciò a muoversi e, ancora guardinga, iniziò un cauto avvicinamento al suo piccolo. Ma non era ancora completamente convinta, così si fermò e mi guardò ancora. Io, intanto, cercavo di trattenere il fiato il più possibile per non spaventarla. Finalmente, sciolto ogni indugio, afferrò rapidamente il piccolo e corse velocissima verso l’albero da cui era scesa. S’arrampicò e in un lampo scomparve nel folto dei rami.
Riprendendo a respirare, provavo diverse emozioni. Mi sentivo al tempo stesso stupita e felice per avere avuto in regalo una situazione così tenera e inconsueta e anche piena di gratitudine verso di me per essere stata gentile e attenta verso la madre scoiattolo.
A distanza di anni ogni tanto questo ricordo mi riaffiora e mi intenerisce. È entrato a far parte delle esperienze significative della mia vita, di quelle esperienze che tassello dopo tassello hanno contribuito e ancora contribuiscono a sviluppare rispetto e considerazione verso tutti gli esseri che popolano la terra, siano essi vicini o lontani.