Emilia Mastrangelo.
Laureata in lettere, docente di italiano e latino nei licei attualmente in pensione. Interessata a tutte le attività artistico-culturali, al mondo giovanile e alla vita in tutte le sue manifestazioni, da sempre si è cimentata nella scrittura creativa. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni conseguendo 11 Menzioni speciali della Giuria per la prosa e la poesia. Vive a Caserta.
Brancolo tra brandelli di ricordi sparsi, come tessere da sistemare in un puzzle difficile assai, di cui mi è appena stata offerta la tessera più importante, ma l’insieme rimane sconsolatamente lacunoso e mi smarrisco nello sgomento di mille enigmi. Così l’immagine complessiva non risulta chiara e mi sfugge il senso logico di un’identità.
Se penso a Mariella, il ricordo più vivo che mi rimanda mia memoria remota è legato ad una telefonata di almeno una ventina di anni fa. Sua madre Vanna quella mattina mi avvertiva che sarebbe venuta in ufficio con la figlia e che aveva bisogno di un permesso per metà mattinata, perché doveva accompagnare la bimba da qualche parte. Ero ancora troppo assonnata per capire dove. Mattiniera Vanna, sempre precisina e puntuale! Certo ero la sua Capufficio, ma eravamo amiche da una vita, poteva evitare i formalismi, tanto lo sapeva che le avrei firmato il permesso anche senza preavviso. Quel pensiero mi accompagnava, quando arrivai nell’ampio cortile dell’antico complesso monumentatale, dov’erano dislocati gli Uffici del Comune, mentre un silenzio quasi innaturale mi rimandava l’eco dei miei passi sulla ghiaia. Mi piaceva quel posto un po’ magico, lontano dalla convulsione cittadina. Lavoravamo lì io e Vanna.
Da piccole abitavamo nello stesso condominio, anzi nella stessa scala e, sebbene io fossi di qualche anno più vecchia, avevamo condiviso giorni, giochi ed amicizie. Poi io avevo cambiato casa e ci eravamo perse di vista. Me l’ero ritrovata come collega dopo gli anni cruciali della giovinezza, entrambe sposate, io senza figli e senza più speranza di averne, lei con un capolavoro di figlia, Mariella appunto. Allora dirigevo l’Ufficio del personale ed ero stata io a volerla come compagna di stanza. Così, a furia di scambiarci confidenze giorno dopo giorno, avevamo acquisito una complicità più che parentale.
Varcando la soglia della vetrata, che delimitava i vari scompartimenti degli uffici, avevo notato che madre e figlia non c’erano ancora, ma proprio mentre tiravo fuori il modulo per il permesso, le avevo viste dalla finestra aperta giù nel cortile.
La scena è presente ora nella mia mente con la stessa evidenza di allora: Mariella camminava impettita con la mano nella mano di sua madre e la sicurezza che le dava quel contatto era visibile nel passo deciso e nello sguardo sereno. Parlottavano gioiosamente e l’eco riverberava la sonorità delle loro brevi parole con un tintinnio argentino che fendeva la limpidezza dell’aria primaverile. La bimba con la testa reclinata all’indietro si perdeva nell’infinità di un cielo azzurrino, appena segnato da qualche nuvola sfilacciata. I suoi limpidi occhioni trovavano uno schermo naturale contro la luce del sole nella verde chioma di due altissime palme, dal fusto sorprendentemente esile. Chissà che le stava dicendo Vanna, ma Mariella certo non l’ascoltava, attratta com’era da un gattino sbucato all’improvviso dalla siepe di recinzione del cortile. L’avevo vista correre per accarezzarlo, ma ancora più lesto l’animaletto si era dileguato e perso nella vegetazione.
Sentendole salire per la breve scalinata di pietra bianca levigata dal tempo, mi colpiva la complice armonia delle loro voci ed appena giunte all’ingresso, mi ero fatta avanti, schioccando un sonoro bacio sulla guancia di Mariella: “Ma quanto sei bella! E tu, Vanna, sei proprio fortunata, che ti è toccata per figlia ‘sto miracolo della natura”.
Vanna gongolava, ma non lo dava a vedere, anche perché conosceva la mia dolorosa rassegnazione dopo le vane attese di un figlio mai arrivato. Certo era bella Mariella, proprio una bella bambina: un corpicino esile ed armonioso, un visino d’angelo dai lineamenti delicati nell’ovale perfetto, il colorito chiaro, due occhi smeraldini sgranati sul mondo e tanti capelli neri, che Vanna quella mattina aveva legati in uno chignon alto, perché la piccola, come spiegò dopo, aveva la prima prova del saggio di danza. Perciò non l’aveva accompagnata a scuola, come ogni altro giorno, ma l’aveva portata con sé in ufficio, dove la bimba già andava curiosando tra le scrivanie dei colleghi, che si divertivano a stuzzicarla. Poteva avere allora una decina d’anni e notavo che, insieme alla bellezza, mostrava un’intelligenza viva e perspicace, un misto di intuito, curiosità femminile e logica ancora in formazione, doti che le consentivano di primeggiare facilmente tra i coetanei della sua classe, come mi raccontava sua madre, sempre con malcelato orgoglio, ma si lamentava anche che la piccola era impegnata in troppe attività: la danza, il violino, il nuoto, per cui lei ed il marito erano quotidianamente impegnati ad accompagnarla da una parte e dall’altra.
Ecco, questa è l’immagine di Mariella che ancora oggi mi martella con insistenza nella mente.
Poi, nel succedersi degli anni sua madre ed io ci eravamo nuovamente perse di vista: io sempre a dirigere l’Ufficio del Personale al Comune, lei in un importante studio legale, dove aveva messo a frutto la laurea tardivamente conseguita. Perciò, quando Vanna mi aveva telefonato anni dopo, quasi faticai a collegare il nome alla persona, tanto ci eravamo allontanate.
Non si smentiva, sempre all’alba telefonava! L’avevo incontrata qualche volta per strada insieme al marito, sempre inappuntabile: mai un capello fuori posto, elegante nei suoi tailleur un po’ retrò, le scarpe abbinate alla borsa, ma… ogni volta mi sembrava più inquieta, più triste. In effetti, a pensarci bene ora, non l’avevo rivista mai più insieme a Mariella, di cui mi dava notizie smozzicate. Quella mattina, forse memore dell’antica amicizia e nostalgica di una complicità che faticava a stabilire con altri per il suo carattere schivo, mi aveva chiesto, tra i tanti convenevoli, se poteva venire a trovarmi. Non mi era sfuggito un che di allarmante nella sua voce.
La mia memoria sensitiva associa a quell’incontro il profumo intenso del glicine sotto la pergola del mio giardino, nel crepuscolo di un maggio già caldo, mentre i raggi del sole filtravano tra i rami intrecciati e ci colpivano con la suggestione di bagliori sinistri. Fu una rimpatriata struggente e … rivelatrice. Affioravano nella nostra conversazione sprazzi di un tempo e di un mondo passato, ma il discorso rimaneva sospeso, come se fosse altro quel che Vanna voleva dirmi e, quando le chiesi notizie di Mariella, senza volerlo, diedi la stura ad un fiume in piena. L’angelica figura di bimba che affiorava dai recessi dei miei recuperi memoriali, a mano a mano, attraverso le parole della madre, si trasformava nella furia erinnica di una ribelle ingrata e cattiva. Soddisfazioni gliene aveva date tante quella figlia così curata, così amata, così coccolata: maturità a pieni voti, diploma di violino al Conservatorio, tante coppe vinte in gare di nuoto e di musica, ma poi, come Vanna raccontava, i dispetti, le disubbidienze, le trasgressioni, le cattiverie quasi gridate a sua madre, come se volesse punirla di una presenza troppo ingombrante e la girandola degli amori adolescenziali, finché si era iscritta all’Università, dove ai corsi di Giurisprudenza aveva conosciuto Fabio, il ragazzo ideale: bello, intelligente, figlio della famiglia più in vista della città; insomma, quello che ogni mamma desidera come compagno di vita per la propria figlia. Il loro legame sembrava, perciò, destinato a durare. A questo punto il pianto straziante di Vanna aveva interrotto il fiume di parole, come l’esplosione improvvisa di un dolore troppo a lungo nascosto e represso. Qual era il problema? Che cosa era venuta a dirmi? Di quale peso voleva liberarsi? In quel momento mi sentivo come una levatrice e piano piano, una parola dopo l’altra, l’aiutai a sciogliere il groppo che l’opprimeva dentro: Mariella si era impuntata e non voleva più continuare gli studi universitari, ma il macigno più grosso pesava troppo sul cuore della mia amica e faticava ad uscirle fuori. Per farla breve, la ragazza non voleva più saperne di Fabio, si era presa una sbandata per un uomo maturo, un tale, gestore di un bar, un…, Vanna non riusciva a dirlo, tanto le sembrava intollerabile, …un uomo sposato, capisci? E più cerco di farla riflettere, più mi vomita addosso cattiverie
Che dirle? Ogni parola poteva sembrare banale di fronte all’enormità di quel dolore. Non avevo conosciuto né le gioie né le tribolazioni della maternità, ma, pur riuscendo a leggere nelle pieghe del suo animo ed a capire, oltre le parole, la delusione e l’amarezza di un fallimento, mi sembrava esagerata tanta sofferenza. Mentre le dicevo, per rasserenarla, che magari si trattava soltanto di una crisi di crescita, che la ragazza voleva solo rivendicare la sua identità contro un amore materno troppo invasivo, che voleva volare e che, magari, passata la sbornia, sarebbe tornata in sé, mi accorgevo di non riuscire a scalfire il macigno che si portava dentro. Pensandoci ora, quasi mi prende il rimorso di non aver saputo aiutarla su un piano più operativo delle parole. Nell’abbraccio di commiato, l’avevo sentita forse più leggera per aver condiviso il suo peso, ma disperatamente rassegnata di fronte alla consapevolezza che le cose non sarebbero cambiate.
A fatica mettevo insieme le tessere del puzzle Mariella: la nuova immagine confliggeva col ricordo dell’angelica creatura che popolava i miei ricordi, ma oltre alle parole di sua madre, mi arrivavano i rumors della pruderie cittadina: amici, conoscenti, gente comune che taglia e cuce, confezionando mostruosità. Qualcuno raccontava maliziosamente di aver visto la ragazza attraversare nuda la finestra aperta della casa, dov’era andata a vivere col suo uomo, scatenando un putiferio tra le pie donne del quartiere.
E una volta l’avevo incontrata in profumeria. Non la vedevo da quando era venuta nel vecchio ufficio con sua mamma. Fu lei a riconoscermi, perché io ero più o meno uguale ad una ventina di anni prima, ma lei, oh quanto era cambiata! Bellissima sempre, certo non passava inosservata, ma era tutto “troppo” in lei: troppo corta la minigonna, troppo alti i tacchi, troppo rosso il rossetto, troppo grosso il cagnaccio, un bellissimo lupo siberiano, che tratteneva a stento al guinzaglio. Duk, mi sembrava di averlo sentito chiamare. Pure, nell’affettuosa spontaneità del suo abbraccio l’avevo sentita dolce, tenera ed indifesa come la ricordavo. Quante cose di un animo umano sfuggono agli estranei! Chi può sapere le ragioni recondite di una metamorfosi così stridente? La crisalide era diventata uno splendore di farfalla, di vita intensa e fragile insieme.
Sua madre ed io da allora avevamo ricominciato a sentirci spesso, così, un poco alla volta il puzzle Mariella si completava: Fabio era stato definitivamente archiviato ed ormai si era sposato con un’altra; la ragazza, invece, passava da una storia all’altra, in una girandola di uomini, che erano come tanti pugni in faccia a sua madre. Per fortuna aveva messo a frutto i suoi studi musicali, riuscendo ad entrare come docente di violino in Conservatorio; viveva ormai per conto suo nella casa che le avevano regalato i genitori.
Questo sapevo, mettendo insieme i tanti tasselli del puzzle; questo fino a stamattina …
La solita telefonata all’alba, la solita Vanna. Nel torpore dell’improvviso risveglio ho letto il suo nome sul display del cellulare e quasi stavo per chiudere il telefono senza rispondere, ma forse un oscuro presentimento ha vinto la mia indolenza.
Più gelida di un iceberg, senza tradire un minimo di emozione, senza una lacrima, senza giri di parole la sua voce mi ha saettato la notizia: “Mariella non c’è più!”. E’ stato il colpo di grazia per scuotermi bruscamente dal mio torpore.
Lì per lì ho pensato ad uno scherzo, magari di cattivo gusto, ma non era nelle corde di Vanna. Ho pure pensato ad una fuga della ragazza in paesi lontani o ad una morte per metafora, nel senso di “morta per lei”, forse ne aveva combinata un’altra delle sue… Macché, era morta, morta davvero! Addirittura ho pensato ad un omicidio nella furia di un litigio o ad un suicidio. Si, ho pensato anche a quello! Ma no, era morta banalmente in ospedale e, per giunta, già tumulata, senza funerale e senza manifesti, secondo i suoi desideri. Confesso: ho riversato addosso alla mia povera amica una gragnuola di rimproveri per non avermi chiamata e poi tante domande, tutte quelle che mi passavano per la mente, cercando di capire. Vanna mi ha parlato vagamente della recidiva di una malattia remota, di cui non ero a conoscenza, e… (immenso stupore!) di Fabio, che aveva saputo la notizia, chissà come, ed aveva voluto vegliare la salma della povera Mariella per un’intera notte, da solo in ospedale.
A conclusione della tristissima conversazione, Vanna mi ha chiesto di accompagnarla dal notaio per la lettura del testamento. L’ultima stilettata: niente, Mariella non ha lasciato niente ai suoi. Il suo piccolo patrimonio: l’appartamento in centro, il mobilio con tutte le suppellettili, un discreto gruzzolo, tutto devoluto al canile municipale, a cui ha lasciato in custodia il suo Duk… e poi tante invettive, tante parole crudeli, tanti larvati rimproveri a sua madre… scritti, nero su bianco, a futura memoria.
Non ci sono parole adatte ad esprimere l’angoscia che mi opprime ancora…
Ma questo è l’epilogo: ora non ho più tessere per completare il puzzle e mi arrovello inutilmente a riempire i vuoti per sciogliere i tanti enigmi lasciati insoluti.
Te le sei volute portare con te, dolcissima Mariella, le tessere mancanti del tuo puzzle, lasciando ai pettegolezzi della gente quelle sbagliate, quelle più assurde, quelle più confuse e ricevendone in cambio solo giudizi e mai comprensione, condanne e neanche un tentativo di assoluzione.
A me hai lasciato, insieme a tanta amarezza, l’immagine intatta del nostro remoto incontro negli uffici vetusti del Comune, quando niente ti aveva contaminata.
La vita procede secondo i suoi ritmi, scanditi da orari e rituali quotidiani. Ti squaderna risvegli, pasti, lavoro, problemi piccoli e grandi … finché non ti dà uno scossone che ti toglie il respiro e ti fa annaspare tra mille difficoltà. Lo scossone arriva per tutti prima o poi…
Sei fuggita sgomenta di fronte al tuo scossone? Hai voluto succhiare il midollo della vita fino a lasciartene strangolare? O forse serenamente hai lasciato che il filo del destino giungesse al suo capo, perché hai afferrato il senso pieno della tua breve vita. Chi può dirlo?
Irrimediabilmente rimane incompiuto questo puzzle, ma ai tasselli mancanti sostituisco il ricordo del tuo unico abbraccio, nella cui intensità avevo percepito un bisogno profondo di ascolto, di condivisione delle tue fragilità, di affetto senza condizioni.
E’ quel che è mancato nella tua vita?