Paolo Maspero.
Commerciante in pensione si dedica alle sue passioni che sono: coltivare l’orto, camminare nei boschi, e leggere. In gioventù è stato istruttore alla Scuola Militare Alpina di Aosta. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Cantù (Co).
In quella mattina di sole tiepido il nonno mi prese per mano. Aveva mani grandi e forti, e dita nodose da contadino, che mi davano sicurezza: stavo bene con lui, mi sentivo protetto.
Lo guardavo con affetto e ammirazione. Sul suo volto severo spiccavano i baffi, classici e imponenti. Gli occhi chiari, grigio azzurri, mi accarezzavano con lo sguardo e l’espressione del suo viso sembrava distendersi in un sorriso.
A me, bimbo di cinque anni, il nonno Basilio sembrava altissimo ed ero felice quando mi prendeva in braccio e mi portava nella vecchia osteria di fronte a casa. Sì, proprio all’osteria. Ero affascinato dal bancone di legno scuro col piano e le vaschette in acciaio, ed un grande specchio con la scritta pubblicitaria di una famosa ditta produttrice di spuma. Quattro o cinque tavolini quadrati, anche questi in massiccio legno scuro, e le sedie impagliate completavano l’arredamento.
Immancabile il commento della sciura Palmira quando ci vedeva entrare: tei chì i duu Basili, eccoli qui i due Basilio; perché dicevano che gli assomigliassi, forse per compiacerlo, e lui ne andava orgoglioso.
Ma quella mattina di maggio il nonno mi doveva accompagnare all’Asilo. Compito semplice, apparentemente. Infatti alla vista del portone d’ingresso le mie gambine si impiantarono come le zampe di un mulo quando ha deciso di sospendere la fatica. Non ne volevo sapere di entrare e la sceneggiata trovò sfogo nelle lacrime: così succedeva spesso. Il nonno non fece commenti, mi strinse la manina e disse semplicemente ‘ndemm, andiamo. Col nonno, in famiglia e con gli amici in paese si parlava infatti solo in dialetto. Mi rilassai e smisi di piangere.
Il nonno sorrise, impercettibilmente, e ci avviammo.
La guerra, la Grande Guerra, l’aveva profondamente segnato. Ma non ne parlava mai, il nonno. Forse, o sicuramente, era un modo per dimenticare il fragore incessante e insopportabile delle bombe, il fumo acre dei gas, gli assalti feroci all’arma bianca. E la trincea gonfia di fango e di morti, inospitale e orribile anticamera dell’ignoto.
Trincea maledetta, ma quando eri costretto ad uscirne per sbalzare a zig zag incontro al nemico e ti sentivi invaso da una strana esaltazione, ecco, in quel momento avresti desiderato di poterci rientrare nella tua trincea: ti sembrava di rivedere la mamma quando ci rientravi. Vivo.
Si parlava poco in quei cunicoli. Si udivano a malapena gli ordini dei superiori. Accovacciati su panche di legno fradicio, i piedi immersi nel fango maleodorante, in attesa di un rancio altrettanto maleodorante e insapore, con poche ore di sonno dense di incubi, gli uomini in divisa avevano perso la voglia di parlare. Aspettavano solo, con tiepida speranza, che quell’orrore finisse, che qualcuno, senza preavviso, si mettesse ad urlare “si torna a casa!”. Si guardavano invece l’un l’altro, muti, gli occhi spenti e vuoti di emozioni. Fumavano, e il fumo delle sigarette attenuava il fetore insopportabile degli escrementi, del sangue dei feriti in attesa di essere soccorsi e medicati, dei corpi dei poveri morti non ancora composti nelle bare.
Si parlava poco, pochissimo, in trincea; le parole sembravano aver perso ogni valore. Ma si sentivano i boati sordi delle bombe, le raffiche insistenti delle mitragliatrici, il sibilo delle pallottole dei cecchini, bastardi maledetti, che ti costringevano a stare rannicchiato.
E ti prendeva una sorta di cupa disperazione senza via d’uscita.
Dal prato, guardando verso la collina boscosa, gli occhi godevano delle macchie bianche dei ciliegi selvatici in fiore. Il sentiero, ripido, si addentrava nel bosco lasciandosi alle spalle un magnifico campo di ranuncoli di un giallo squillante; il verde dell’erba, chiaro e brillante nel prato, si faceva più intenso man mano che ci si inoltrava nel bosco. Le radici degli alberi si intrecciavano nella terra rossiccia e sassosa formando dei gradini che facevano da comodo appoggio in salita.
Ci fermammo in un piccolo spiazzo dove era stato costruito un capanno interamente in legno, con un tettuccio ricoperto di ramaglie e foglie di felci ed un portoncino di pino scurito dal tempo. Il nonno lo aprì e ne prelevò i suoi attrezzi da lavoro: un rastrello coi denti in legno, un pesante forcone, una falce con la lama affilata e lucida, e una gerla di vimini che a me parve enorme. Caricò tutto su una carriola e riprendemmo il sentiero che si inerpicava verso la sommità della collina.
Ul sass de la striia, il sasso della strega, era una tappa obbligata: un enorme masso erratico, con una vaga forma di poltrona, addossato ad un tronco di castagno spezzato da un fulmine. L’unico albero in tutto il bosco ad avere subito questa sorte: spoglio di rami e di foglie era rimasto solamente quel tronco carbonizzato a testimonianza di una notte di temporale violento, da streghe, appunto.
Lo scongiuro consisteva nello sputare sul sasso, ma i più coraggiosi lo usavano invece come seduta per rimarcare la loro audacia. Tuttavia nessuno poteva nascondere di provare un leggero brivido nella schiena perché era credenza diffusa che potesse causare dei malefici, non solo al singolo ma anche ai famigliari. Inevitabile, quindi, lo scongiuro.
Nuvoloni bassi e scuri incombevano sulla trincea quel mattino di settembre 1916. Si erano addensati improvvisamente, spinti dal vento, dopo una nottata di stelle luccicanti e di luna piena. Si aspettava l’ordine di assalto, ma quei nuvoloni avevano di fatto quasi azzerato la visibilità. Si stava in attesa.
Dalle retrovie stavano salendo una ventina di conducenti coi loro muli stracarichi, lenti e pazienti. Una strana processione di uomini e animali, armi, munizioni e vettovaglie. E tiepide speranze: coi muli arrivava infatti anche la posta dalle famiglie, un esile filo che teneva legati i giovani soldati alle loro terre di origine, ai loro campi, ai loro cascinali ma, soprattutto, ai loro famigliari.
Mamme e mogli disperate e rassegnate trascorrevano giornate altrettanto disperate nell’angoscia che potesse arrivare quella comunicazione, definitiva e crudele, sulla sorte dei loro figli e mariti.
Nella trincea gli uomini attendevano fiduciosi che i muli arrivassero prima dell’ordine di assalto e confidavano perciò che quelle nuvole fosche stazionassero per qualche ora così da permettere lo scarico dei muli. Posta compresa. Ma il vento si prese gioco della loro speranza e tornò a soffiare tanto da spostare, lentamente ma inesorabilmente, le nuvole spaventose ma amiche in quel frangente. La grappa (tale sembrava quel liquido orrendo che veniva fornito prima della battaglia) era già stata distribuita. Il temuto ordine d’assalto corse improvviso per la trincea.
Gli ufficiali e i capi squadra, pistole alla mano, erano pronti sulle scalette di uscita; le voci, invasate e storpiate dall’esaltazione del momento, si sovrapponevano nell’ordine di assalto “fuori, fuori!”.
L’adrenalina, scossa dall’alcool, entrò velocemente in circolo e i soldati, scossi a loro volta, si buttarono in avanti verso la trincea nemica con determinazione e ferocia.
La bomba esplose brutale ma fermò solo parzialmente l’assalto; morti e feriti furono ignorati, ma acuirono la ferocia, il desiderio di vendetta dei superstiti che si scagliarono urlando contro il nemico senza alcuna indecisione, anzi quasi con sfrontatezza.
Il nonno Basilio si risvegliò tra i feriti nell’Ospedale da Campo 244; una scheggia della bomba gli era penetrata in un fianco. Era il settembre 1916. La sua guerra era finita.
La sommità della collina si presentava con un piccolo prato di forma quasi quadrata circondato da una gran varietà di alberi: sul lato sud predominavano robustissime querce, mentre tutt’intorno si facevano compagnia vecchi castagni, bianche betulle, spinose robinie, noccioli selvatici e altissimi pini. Rari, invece, carpino e frassino. I ciliegi selvatici dominavano il fianco ovest della collina, ben visibili dal paese. Ul rocul, il roccolo, era il nome della piana, così indicato anche nelle locali mappe catastali, per via delle reti impiantate per la cattura degli uccelli.
Il nonno cominciò il suo lavoro tagliando i rovi che infestavano il sottobosco, raccogliendoli poi col rastrello e caricandoli infine con la forca nella carriola. Li portò nella vicina radura dove, una volta essiccati, venivano bruciati. Questo lavoro consentiva di salvaguardare il sottobosco fitto di piantine di mirtillo che venivano a maturazione in giugno, felci, erica, muschio e ginestre e, in stagione, ricco anche di funghi e castagne.
Il mio lavoro consisteva nell’osservare il nonno e, a sua richiesta, portargli il rastrello (unico attrezzo che mi era consentito toccare) o tentare di smuovere, fatica immane per me, la carriola. Poi correvo al laghetto, veramente minuscolo, che stava oltre la barriera di querce, per ascoltare il gracidio delle rane e immergere le mani in piccole pozze d’acqua nel tentativo di catturare i girini che vi nuotavano allegri e numerosi.
L’urlo di una lontana sirena della città segnalò il mezzogiorno. Deposti gli attrezzi il nonno mi disse ancora una volta ‘ndemm, e mi portò in una vecchia trattoria, poco distante dalla radura, dove sostavano in breve pausa tutti i boscaioli per un pasto frugale e un bicchiere di vino o spuma.
Il viale delle bocce costituiva l’attrattiva domenicale e sui tavolini esterni in sasso si consumavano piatti enormi di pesciolini fritti; poi si ballava, gli uomini sudatissimi e le donne sorridenti nei loro
abiti della festa, accompagnati da un vecchio organino a manovella: sempre le stesse melodie, ma poco importava. Ecco, quell’organino nero lucido, a forma di pianoforte, mi affascinava: lo sfiorai con le mani e toccai pure la manovella d’ottone sperando in una magia, ma rimase muto.
Fu la “sciura” Stefania, commossa dal mio incantamento, a dare vita al magico carillon che mi fece scoprire un mondo fantastico, incredibile, tale da rimanere senza fiato.
Il bosco, il laghetto, gli attrezzi da lavoro, l’organino sono tra i ricordi più intensi che ho del mio nonno Basilio, con i suoi baffi severi, le mani forti e gli occhi grigi e teneri.
Lo trovarono, immobile nel silenzio della morte, seduto sullo scalone dell’ospedale dove era stato ricoverato per una stupida infezione. Frequentavo la seconda elementare e non volli rendermi conto che non l’avrei più visto.