Flora Martignoni.
Pensionata, diplomata in ragioneria. Ama scrivere racconti, dipingere e fotografare e viaggiare e portare dai viaggi dei ricordi fotografici. Al Concorso 50&Più nel 2016 ha vinto la Farfalla d’oro per la fotografia e nel 2020 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Gazzada Schianno (Va).
Dopo le elementari sono andata a frequentare le scuole medie dalle Suore Canossiane a Gallarate.
Era un prestigioso istituto religioso, dove le suore, oltre che l’istruzione, ci impartivano anche lezioni di vita. Ci davano le direttive per comportarci bene: “le brave figliole si distinguono anche fuori dall’istituto”. Secondo me ci distinguevamo di sicuro, perché dovevamo sempre tenere i capelli pettinati indietro. Dicevano “il ciuffo sugli occhi fa perdere la vista”. Dovevamo portare i vestiti piuttosto lunghi e non scollati, e quando ci andava male, per la festa della Madre superiora o della Beata Maddalena di Canossa, dovevamo indossare anche una divisa, tipo orfanelle: gonna blu a pieghe, che non si usava più da quando ero piccola, e camicetta color grigio tristezza.
Per andare a Gallarate prendevamo il Treno. “Accelerato Varese / Milano Porta Garibaldi… ferma in tutte le stazioni…”, annunciava l’altoparlante alla stazione di Gazzada. Dal mio paese andavo a scuola a Gallarate con quattro amiche, bambine che a 11 anni per la prima volta prendevamo il treno da sole. Venivamo da un piccolo paesino rurale e non eravamo abituate ad andare in città. Le nostre suore ci davano suggerimenti sul modo di comportarci sul treno: dicevano che non bisognava fare schiamazzi, parlare forte, insomma dovevamo distinguerci per la nostra compostezza. Comunque di non importunare i viaggiatori, non ce lo avevano detto, era superfluo…
C’era sul treno un ragazzo, maggiore di noi, che probabilmente frequentava le scuole superiori. Era un tipo strano. Si metteva sempre sull’ultima carrozza, nello sgabuzzino che allora c’era tra una carrozza e l’altra; sempre solo, non parlava mai con nessuno. Si vestiva anche in maniera strana: pantaloni alla zuava, giacca abbinata con la cintura in vita e lo zaino da montagna di tela verde, con dentro i libri. Con un abbigliamento così si andava in montagna. Ma allora noi in vacanza in montagna non eravamo mai andate. Poi i pantaloni alla zuava, quelli rigonfi sulle gambe e stretti in basso con l’elastico, non li portava più nessuno, neanche i più poveri.
Un giorno una delle mie amiche ha cominciato a dire: “guarda quello lì, sembra che venga dalla Valbrembana”. Una volta che, noi siamo scese alla stazione di Gazzada, e lui era affacciato al finestrino, una di noi gli ha gridato “ciao Valbrembana”.
Ciao Valbrembana, oppure Valbrembana…Valbrembana…Valbrembana…abbiamo continuato a cantilenare per diversi giorni. Naturalmente prendevamo le nostre precauzioni, non salivamo mai sull’ultima carrozza, aspettavamo a canzonarlo, quando ci sentivamo al sicuro, dopo essere scesi alla stazione di Gazzada, mentre il treno ripartiva per Varese.
Una volta ci ha risposto: “Ignoranti, non sapete neanche la geografia, la Valbrembana non è da queste parti”.
Poi una sera…
Già perché tornavamo alla sera, dopo che nel pomeriggio, avevamo seguito corsi di cucito, canto corale e religione. Mia madre aveva deciso di mandarmi in quell’Istituto, facendo dei sacrifici, perché la scuola era costosa. Lei andava a lavorare e pensava che “inscì a restan ritirò e foeura di pericul” (così restano ritirate e fuori dai pericoli).
Poi una sera, appena salite su una carrozza centrale del treno, che era quasi vuoto, abbiamo visto uscire dallo sgabuzzino Valbrembana con in mano una pistola. Era una pistola con la canna lunga, come quelle dei cow boy, grigio metallico, era troppo grossa per essere un giocattolo da bambini, non era certo di plastica, perché i giocattoli di plastica non c’erano ancora. Tutte queste riflessioni le ho fatte dopo, in quel momento, insieme alle mie amiche, abbiamo pensato solo a scappare. Con la cartella ancora in mano, ci siamo messe a correre, verso il fondo della carrozza, poi dalla piattaforma in un’altra carrozza, poi in un’altra ancora, senza voltarci per guadagnare tempo; con la coda dell’occhio però vedevamo che ci seguiva, nascondendo probabilmente la pistola sotto la giacca. Non ci venne in mente di chiedere aiuto ai pochi viaggiatori sulle carrozze. Poi, se avesse sparato, che aiuto ci potevano dare? Quando siamo arrivate a una delle ultime carrozze, abbiamo cercato di aprire la porta della piattaforma, ma questa era chiusa a chiave. Qualche volta le tenevano chiuse, forse per non far passare i viaggiatori in prima classe, forse per qualche altro motivo. E’ stato un attimo tremendo, siamo state prese dal panico, ma prima che la disperazione ci assalisse, abbiamo visto materializzarsi nell’oblò della porta chiusa, il bigliettaio che, con un apposito aggeggio, apriva la porta.
Ci siamo voltate. Valbrembana non c’era più…