Flora Martignoni. Pensionata, diplomata in ragioneria. Ama scrivere racconti, dipingere e fotografare e viaggiare e portare dai viaggi dei ricordi fotografici. Al Concorso 50&Più nel 2016 ha vinto la Farfalla d’oro per la fotografia e nel 2020 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Gazzada Schianno (Va).
Quando ero giovane, i ragazzi partivano per il servizio militare, con una ferma di circa ventiquattro mesi e dalle nostre parti venivano quasi tutti destinati al corpo degli alpini in Alto Adige.
Il mio primo fidanzato Oreste era un mio compagno di scuola che negli anni della Ragioneria mi aveva fatto solo una corte molto blanda, ottenendo in cambio di poter copiare da me tutti i compiti in classe di ragioneria e tecnica commerciale, materie in cui io ero molto brava. Seduto nel banco dietro il mio, dava una pedata alla mia sedia e mi diceva “spostati che devo copiare”.
Finita la scuola era partito per il servizio militare, destinazione Silandro in provincia di Bolzano, Corpo degli Alpini. Dopo un po’ di mesi “lassù sulle montagne”, forse stanco di muli, marce ed alte cime, aveva cominciato a scrivermi, all’indirizzo: Via Boh, numero lo sa Dio. La cartolina era comunque arrivata, raffigurante montagne, stelle alpine e la Preghiera dell’alpino. Da quel momento è partita una fitta corrispondenza. Oreste che nel frattempo era riuscito a imboscarsi in Fureria mi scriveva le lettere sul retro delle corrispondenze dell’ufficio. Davanti c’erano le punizioni assegnate ai soldati, come divertenti storielle: “all’alpino … tre giorni di CPR, perché durante la marcia, si attaccava alla coda dell’equino a lui assegnato. Le licenze allora venivano concesse molto raramente e così il nostro amore è andato avanti in maniera platonica, per corrispondenza. Quando è tornato: congedato, bello, abbronzato e con un pizzetto di barba tipico degli alpini, mi ha lasciata “perché la vita di caserma lo aveva segnato e adesso voleva essere libero” sic.
Poi c’è stato Giuseppe. Anche lui aveva fatto il servizio militare negli Alpini. Per lui la “naia” era stata dura. Lunghe marce, esercitazioni con il mulo, che doveva portare un obice da piazzare in cima a qualche montagna per addestramento, turni di sentinella di notte perché allora in Alto Adige c’erano stati degli attentati. Non essendo molto dotato fisicamente, aveva dovuto subire anche gli scherzi da caserma, che tra gli Alpini erano particolarmente pesanti. Per esempio, dover passare sotto la pancia dei muli nella stalla, mentre gli altri commilitoni picchiavano i muli con la scopa e c’era il rischio di prendere qualche calcio dei muli. Abbiamo condiviso la passione per la montagna ma la nostra storia non è durata a lungo e ancora una volta sono stata lasciata in none del desiderio di sentirsi libero. Forse la montagna, con i suoi vasti orizzonti, le cime vicine al cielo, ispirava voglia di libertà.
Poi è stata la volta di Mario. A militare era stato Tenente degli Alpini. Lui “libero” voleva sentirsi sempre, per cui le nostre frequentazioni sono state piuttosto occasionali. Quando non aveva impegni con le gite del CAI o altre escursioni in montagna, mi invitava ad uscire per un cinema, una pizza, o poco altro. Non era uno tanto brillante e per una festa di Carnevale in maschera, si era presentato con la sua divisa da Tenente degli Alpini. Io però in quel periodo avevo perso i miei genitori e rimasta sola, accettavo tutto in cambio di un po’ di compagnia. Però quella volta ho avuto una grande soddisfazione, l’ho lasciato io. Proprio quando mi aveva proposto di provare a metterci insieme, ho potuto rispondere “grazie, ma ho già un altro impegno”.
Allora avevo conosciuto Pier. La prima cosa che gli ho chiesto è stata se avesse fatto il servizio militare. Lui mi ha risposto di no perché era “sostegno della nonna”. L’anno successivo ci siamo sposati.